La presentazione del narratore argentino
Le verità di Figueras
«Kamchatka» e «Acquarium», i due romanzi di Marcelo Figueras tradotti in italiano rivelano uno scrittore interessante, capace di raccontare realtà diverse sempre con abilità e poesia
Comincio con una considerazione più da lettore appassionato di romanzi e da narratore a mia volta che da critico: ci sono degli scrittori che sanno raccontare il bene; altri che sanno raccontare il male. Pochissimi sanno raccontare il bene e il male con la stessa forza e la stessa intensità. (Io per esempio quando mi provo a raccontare il bene risulto spesso di un sentimentalismo appiccicoso). Beh, lo scrittore argentino Marcelo Figueras appartiene a quest’ultima, risicata categoria. Lo affermiamo dopo aver letto i suoi due romanzi tradotti in italiano da L’asino d’oro – e cioè Kamchatka (2014) e l’ultimo, Acquarium, uscito poco tempo fa – entrambi tradotti assai bene (e non era facile trattandosi di uno scrittore enciclopedico e stilisticamente poliedrico) da Gina Maneri. Cercheremo di capire come ciò avvenga, provando a ragionare alternativamente e direi comparativamente, su questi due libri, anche immaginandoli, certo abusivamente, a comporre un’unica opera in due lunghi atti.
Voglio dire subito che sono assai diversi, i due libri di cui parliamo, pur all’interno di una stessa idea di romanzo come romanzo-contenitore, e cioè un organismo in grado di assorbire tutto ciò che trova nella porzione di realtà che attraversa. Quasi una idrovora che tutto macina e divora, in modo apparentemente indistinto, l’alto e il basso, dall’astronomia alla canzone popolare, dalla filosofia al fumetto, dal cinema alla letteratura, dalla musica classica al rock, alla mitologia all’aneddoto ecc. Una forma-romanzo molto libera, quindi, dove si alternano pagine di saggio e di narrazione senza mai che si allenti la tensione della pagina, come vedremo, in un composto di conio postmoderno, ricco di rimandi, citazioni, salti temporali in cui si materializza un’idea del tempo in cui il presente, il passato e il futuro coesistono dentro lo stesso istante, in un senso darwiniano e einsteiniano. Una visione – questa del Tempo – che non può non chiamare in causa la filosofia e la teologia, secondo una precisa idea della creazione, più volte ribadita nei due libri.
Tagliando moltissimo con l’accetta, si potrebbe dire che Kamchatka, pur in un contesto complessivamente tragico – parliamo della dittatura argentina, coi suoi desaparecidos, con la sua forsennata e isterica repressione, seguita al Golpe militare del 76 (in una famiglia di due colti dissidenti, un avvocato e una fisica, tutto visto dalla prospettiva del figlio, un ragazzino di 10 anni) – ha un tono giocoso e in certi passaggi quasi elegiaco, se mi consentite l’azzardo. Non c’è conflitto nella famiglia che ci racconta Figueras, i genitori sono buoni, positivi e generosi e Harry, il ragazzino protagonista, non può che amarli sconfinatamente e identificarsi in loro. Il Terrore è dietro l’angolo, ma ne giunge soltanto una eco ovattata. L’autore ha un tocco lieve e poetico, ironico, pietoso, affettuoso, nel raccontare l’infanzia di questo ragazzino di Buenos Aires, primogenito, con un fratellino di cinque anni che chiama comicamente il Nano (che ricorda un po’ il fratellino di Mafalda nell’omonima striscia del disegnatore argentino Quino), entrambi costretti assieme al papà e alla mamma a una vita erratica e precaria, sotto falso nome, per scongiurare l’arresto dei genitori da parte delle autorità militari. Non sappiamo in che misura il romanzo sia ispirato alla storia personale dell’autore. E non lo sappiamo sino in fondo nemmeno per Acquarium: come tutti gli scrittori che usano massicciamente l’autobiografia, Figueras è portato a mescolare le carte, a confondere, interessato certo più all’opera che alla veridicità della propria biografia.
In Acquarium Figueras privilegia invece toni drammatici, ma anche epici, in quell’ “omerico” peregrinare del protagonista, in un mondo altro, violento e ostile, Palestina-Israele, che si conclude tragicamente, dentro una logica di “tragica normalità”. Ma ricordo ancora che ci troviamo dentro un contesto narrativo che ammette nel suo statuto anche il disincanto ironico e comiche digressioni.
Acquarium (L’asino d’oro, pp. 316, 14 euro) è uno di quei romanzi che consiglieresti a chiunque, al più esigente e raffinato addetto ai lavori come a un qualunque lettore. Ricordo che Figueras è anche sceneggiatore e giornalista, ed è proprio il mestiere di inviato di guerra in Israele e Palestina durante la Seconda Intifada che gli ha offerto sfondi e materiali per Acquarium, ambientato in quegli stessi luoghi martoriati – allora come oggi – da una guerra senza fine.
Acquarium è un romanzo sapiente nella costruzione dell’intreccio, ricco di conoscenza (scientifica, filosofica, teologica, musicale, letteraria ecc.) in applicazione coerente di un’idea precisa di romanzo e grazie all’enciclopedico talento dell’autore, capace di parlare d’Amore (anche quello con la a maiuscola) senza retorica. Un romanzo perfettamenteiscritto nel postmoderno (per l’uso massiccio della diversione, per la compresenza al suo interno di diversi generi letterari, anche fulminanti microbiografie e microtrattati, per il gusto dei rimandi e delle citazioni, per la riflessione metaletteraria sulla scrittura e sull’opera stessa che si va scrivendo, per quel suo ardito andirivieni nei tempi storici e narrativi). Il protagonista si chiama, certo non casualmente, Ulises: un nome che «lo condannava a vivere della propria astuzia, a compiere un’odissea prima di tornare a casa».
Giovane psicologo argentino, reduce da un matrimonio fallito, da una detenzione in carcere durante il periodo terribile della dittatura nel suo paese, da una professione avviata dentro la struttura carceraria, Ulises arriva in Israele per rintracciare i due figli, che gli sono stati rapiti dalla moglie in un modo che non si svelerà mai del tutto (almeno così mi è sembrato). La sua epopea semiclandestina in quel paese si consumerà in fretta, tragicamente, rivelandogli, e rivelandoci, un mondo in cui la violenza è iscritta nella quotidianità a tal punto da diventare routine, «un paese di soldati» nel quale, «se vuoi avere a che fare con uomini che non maneggiano armi, devi limitarti – scrive con nero sarcasmo Figueras – alla fascia d’età da zero a dodici. Certo, sempre che le armi di plastica non ti disturbino».
Il narratore ci svela poco a poco anche le vicende di altri personaggi: anzitutto Irit, una scultrice, vedova di guerra, splendido personaggio femminile, che di lui si innamora perdutamente e con lui vive, malgrado le difficoltà di comprensione (Ulises non parla inglese, lei non parla spagnolo), una bruciante storia d’amore, durante la quale prenderà coscienza del proprio destino di donna e di artista. Poi ci sono, fra i personaggi principali, Miriam e David, una coppia di ebrei newyorkesi stabilitisi in Israele negli anni sessanta, protagonisti di pagine concentrate, cariche di pietas, che incarnano la tragedia di un popolo, quello ebraico, perennemente in fuga verso un altrove purchessia. Infine c’è il piccolo Danny, un orfano che ha perso tutto, compresa la propria identità e l’uso della parola, che disegna ostinatamente carri armati, e che Irit, dopo la morte di Ulises, finirà per adottare quasi come risarcimento ed emblema vivente della sua perdita.
La scelta di trasferirsi in Israele per Miriam e David è in parte indotta dalla morte del primo e unico figlio ad appena due giorni dalla nascita. Da quel momento la donna si chiude in un silenzio assoluto, definitivo, potentemente metaforico, che durerà fino alla morte. Lunghi anni trascorsi accanto al marito, ma in un universo tutto suo, vedendo scorrere in tivù documentari naturalistici sul mondo marino oppure inchiodata davanti alle vasche dei pesci nell’Acquarium pubblico di Tel Aviv: un luogo inventato, al momento della stesura del romanzo (come ci informa il narratore prodigo di informazioni sulle proprie strategie narrative), che funge da crocevia per i destini di tutti i personaggi.
Il protagonista dunque è argentino, proprio come l’autore, e all’Argentina Figueras dedica nel complesso non molto spazio in questo libro (soltanto l’inizio – anche se ritorna a tratti nel corso della narrazione), mentre è il tema principale e lo sfondo di Kamchatka, come abbiamo visto, il romanzo precedente, che potrebbe in fondo essere letto come un ampio antefatto di Acquarium, la parte argentina della esistenza del protagonista e dello scrittore, antecedente al fatale viaggio in Israele.
Si potrebbe chiedere all’autore fino a che punto quanto detto sia vero, se sia arbitraria questa sovrapposizione trattandosi di due romanzi autonomi. Si potrebbe chiedere anche all’autore quali fatti sono realmente accaduti e quali sono invece frutto della sua fantasia. Anche se sono domande fastidiose, moleste – chi scrive ne sa qualcosa – quelle sul grado di verità biografica e finzione in chi usa, fra le sue cifre, l’autobiografismo.
Ma torniamo a Kamchatka, che ho letto dopo Acquarium, anche se anteriore. Il protagonista narrante è un ragazzino di 10 anni argentino, lo abbiamo detto, che ha un fratellino di cinque anni, da lui chiamato sempre, comicamente, il Nano. Figueras racconta con leggerezza un’età della vita piena di scoperte, agnizioni, sia nell’ambiente scolastico sia a casa. Il papà di Harry, il protagonista, è un avvocato che difende i dissidenti politici incarcerati e si barcamena per non diventare a sua volta uno di loro. La madre è una scienziata, lavora in un laboratorio all’università, almeno fintantoché non viene licenziata per le sue idee politiche. E’ molto bello nel romanzo il rapporto di amicizia che si instaura fra l’io narrante e un ragazzo più grande, che condivide per un breve tratto il loro destino di transfughi clandestini, abitando con loro in una grande villa fuori città, un po’ cadente, senza rivelare la sua vera identità che ragioni di sicurezza. Un rapporto che diventa anche maestro-discepolo, di istruzione alla vita, di iniziazione.
Porterò memoria, di questi due romanzi di Figueras, anche delle molte e notevoli riflessioni sull’arte, sull’arte della scrittura, ma anche sull’arte praticata da Irit, e cioè la pittura, la scultura, il ritratto, oltre all’arte tout court come strumento privilegiato di interpretazione del mondo, della realtà, certo sempre insieme alla Scienza, alla Fisica e altre discipline del sapere messe a reagire le une con le altre. Sarebbe interessare chiedere all’autore – e credo che lo farò nel corso della presentazione a Più libri più liberi – di precisare quale sia la sua idea di romanzo contemporaneo – quali siano (o siano stati) i suoi modelli letterari ma anche extraletterari. Anche se molti di essi appaiono, più o meno dichiarati, nelle sue pagine.
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Andrea Carraro presenta questo pomeriggio, 5 dicembre, l’opera di Marcelo Figueras nell’ambito della manifestazione “Più libri più liberi” presso il Palazzo dei Congressi di Roma, nella Sala Diamante.