Angela Di Maso
Ritratto d'artista

La solitudine dell’attore

«Tra le quattro mura di un teatro si è sempre soli, sia l’attore che recita alla luce dei proiettori sia lo spettatore che guarda e ascolta nel buio della sala». Le confessioni di un Maestro: Vittorio Franceschi

Nome e cognome: Vittorio Franceschi.

Professione: Attore e drammaturgo. Condirettore e insegnante della Scuola di Teatro Alessandra Galante Garrone di Bologna.

Età: Sono nato il 14 ottobre 1936.

Da bambino sognavi di fare l’attore? Sognavo di fare il burattinaio. Mia madre mi portava spesso a vedere il Teatro dei burattini e lì è nato il mio amore per il teatro.

Cosa significa per te recitare? Mi è difficile rispondere. Si prova un piacere strano, un po’ misterioso, che somiglia, forse, a quello che provano i rocciatori quando scalano la parete, o i navigatori quando affrontano l’oceano su un guscio di noce e qualcuno dice che sono matti, il che è un po’ vero. La differenza, non piccola, è che in teatro non si rischia la vita perché come tutti sanno – anche quelli che si “immedesimano” nel personaggio riuscendo a piangere lacrime vere – in scena è tutto finto. Ciò malgrado, il palcoscenico è un luogo che fa paura perché il gioco che vi si svolge è terribilmente serio oltre che pesante dal punto di vista fisico. Tra le quattro mura di un teatro si è sempre soli, sia l’attore che recita alla luce dei proiettori sia lo spettatore che guarda e ascolta nel buio della sala. Si torna a essere “insieme” solo agli applausi, che sono per tutti il segnale dello scampato pericolo, e qualche volta del reciproco piacere. In ogni caso, parlando di recitazione, parole come arte, cultura, comunicazione, messaggio e compagnia bella le lascerei stare; c’è del vero, ma vengono usate troppo spesso come alibi per mascherare mediocrità e interessi che col teatro non c’entrano nulla. Dal momento che la vita è una sequela di eventi per lo più ingannevoli, dai quali bisogna pur difendersi, ne consegue che recitare è la risorsa che più di tutte viene incontro ai nostri bisogni. È un’attività praticata da ognuno di noi, più o meno bene, in forma dialogica o monologante, al lavoro, in famiglia, nei rapporti di società, con se stessi (il famoso monologo interiore). Niente di più naturale che qualcuno decida di farne il proprio mestiere, tento più che in scena si usano parole altrui e quindi ci si può chiamar fuori da ogni responsabilità. Tornando alla tua domanda, cosa significhi per me recitare non l’ho mai saputo bene. Forse negli anni ’70, quando facevo teatro politico e vedevo gli occhi sgranati di quel pubblico semplice, quasi stupito, che scopriva il teatro. Ecco, lì effettivamente mi sembrava di fare un lavoro socialmente utile. Ma quello era un momento storico così diverso, pieno di speranze poi inghiottite da un tradimento globale del quale siamo tutti responsabili. E quando c’è un vuoto di valori, come si sa, vincono l’opportunismo e la furbizia a scapito del talento. Oggi, sempre più spesso questo mestiere è praticato da persone che col teatro c’entrano assai poco… e che avrebbero potuto lavorare con lo stesso risultato nell’idraulica come nella pelletteria. Ma nel teatro hanno trovato un varco più comodo degli altri in cui infilarsi. Ormai si fabbrica e si deglutisce tutto, anche la mozzarella blu. Ma nessuno di sogna di gridare “Il Re è nudo!”. Bisognerebbe poter fare un esame attitudinale a tutti i teatranti d’Italia, includendo ogni carica e mansione, per sapere se hanno i requisiti e se gli spetta la paga (per gli attori sempre più magra). Ma chi ci mettiamo in commissione? In ogni caso, tornando al “recitare”, so di non averlo mai fatto in modo spensierato, al contrario, c’era sempre un fondo di angoscia e di disagio, mescolato al brivido del rischio che come sappiamo è parte del piacere. Ho sempre cercato di evitare la faciloneria e gli effetti grossolani, insomma il lato peggiore del nostro lavoro. Questo alle volte va a scapito della carriera, ma pazienza. Ancora oggi quando sono in quinta in attesa di entrare ho il batticuore. Ma tirando le somme, l’unica cosa che dopo tanti anni mi sento di affermare con certezza è che un applauso a scena aperta fa bene alla salute. A condizione che sia ottenuto con intelligenza e buon gusto, e non cacciando la lingua agli Dei.

vittorio franceschi7Il tuo film preferito? Sono tre: Luci della ribalta di Chaplin, Il settimo sigillo di Bergman, Amarcord di Fellini.

Il tuo spettacolo teatrale preferito? (Fatto da te o da altri) Sono tre: Vita di Galileo di Bertolt Brecht, regia di Giorgio Strehler, 1962; L’age d’or – Théâtre du Soleil di Ariane Mnouchkine, 1975; L’oiseau vert da Carlo Gozzi, regia di Benno Besson, 1984 (c’ero anch’io nel ruolo di Tartaglia, quell’anno recitavo – in francese, bellissima esperienza – alla Comédie de Genève).

Qual è l’attore da cui hai imparato di più? Renzo Ricci.

Qual è il regista da cui hai imparato di più? Benno Besson.

Il libro sul comò: Non ce l’ho sul comò ma sul comodino: La gioia di scrivere, tutte le poesie di Wislava Szymborska.

La canzone che ti rappresenta: Moltissime mi piacciono ma nessuna mi rappresenta. Se invece vuoi sapere quella che amo di più, allora Aux marches du palais che cantavo a due voci con Alessandra quando si faceva una festa in casa di amici. È un’antica canzone d’amore, una delle più belle espressioni della grande tradizione popolare francese. Ma credo che in Italia pochi la conoscano.

Descrivi il tuo giorno preferito: Ferragosto, perché parcheggio senza problemi.

Vittorio Franceschi4Prosecco o champagne? Champagne, dài.

Il primo amore, lo ricordi? Ricordo che aveva i calzini corti.

Il Primo bacio: rivelazione o delusione? Metà e metà, comunque faceva classifica.

Strategia di conquista: qual è la tua? Il superenalotto.

Categorie umane che non ti piacciono? I ritardatari cronici. E in campo teatrale gli artistoidi, detti anche “Artisti Genio e Sregolatezza”. Ma per entrare nel merito ci vorrebbero dieci pagine.

Classifica per sedurre: bellezza, ricchezza, cervello, humour: Per sedurre un coglione, bellezza e ricchezza; per sedurre una donna intelligente, cervello e humour.

Il sesso nobilita l’amore? O viceversa? Lo nobilita quando funziona. Idem per il viceversa. In ogni caso i divorzi sono in aumento.

Meglio le affinità elettive o l’elogio degli opposti? Meglio le prime, soprattutto se lui è uno che mena.

Costretto a scegliere: cinema o teatro? Teatro, perché mi ha dato da vivere.

C‘è qualcosa che rimpiangi di non avere detto a qualcuno? Sì, ma non lo dico.

Shakespeare o Beckett? Ma che domanda è?

Qual è il tuo ricordo più caro? La nascita di mio figlio.

E il ricordo più terribile? La morte di mia moglie.

L’ultima volta che sei andato a teatro, cos’hai visto? Il circo capovolto, dal romanzo di Milena Magnani, adattamento e interpretazione – splendida – di Andrea Lupo. Prodotto dal Teatro delle Temperie, un piccolo e coraggioso teatro alle porte di Bologna. È la storia di una famiglia circense, passata dal campo di sterminio di Birkenau ai campi fangosi della periferia italiana, fino alla morte del suo ultimo erede, trafitto da sette pugnalate ai bordi di una baraccopoli sotto un cavalcavia, tra gli scatoloni che contengono ciò che resta del suo povero circo. Un piccolo gioiello di verità e poesia, di quelli che ti riconciliano col teatro.

Racconta il tuo ultimo spettacolo: Era un mio libero adattamento di un famoso racconto di Gogol, Il cappotto. Regia di Alessandro D’Alatri, scene di Matteo Soltanto, costumi di Elena Dal Pozzo, musiche di Germano Mazzocchetti. Con Matteo Alì, Umberto Bortolani, Giuliano Brunazzi, Federica Fabiani, Alessio Genchi, Andrea Lupo, Stefania Medri, Marina Pitta. Uno più bravo dell’altro. Ah, si, c’ero anch’io. Alla fine, tra gli applausi qualcuno gridava «grazie!»: è un premio magnifico, per chi vive il teatro come lo vivo io.

Vittorio Franceschi1Perché il pubblico dovrebbe venire a vederlo? Anche volendo non potrebbe, non è più in cartellone. Succede spesso agli spettacoli che funzionano.

Il mondo del teatro è veramente corrotto come si dice? L’Italia è un Paese ignorante e il Teatro non è un’isola felice. Come sappiamo, la corruzione è una conseguenza dell’ignoranza, oltre che della naturale predisposizione dell’uomo. Dove c’è cultura, almeno in parte si può fare resistenza, educando. Ma in Italia questo è quasi impossibile. Basti osservare il nostro Parlamento: lì la minoranza – diversamente da quel che credono i poveri cittadini – non è composta dagli oppositori al governo, ma da coloro che hanno studiato la grammatica e la sintassi. Gli altri, per lo più volgari e supponenti, ignavi quando va bene. Citando il grande Petrolini: “senza orrore di se stessi”. Cosa vuoi che faccia il teatro? Segue l’esempio.

Come e dove ti vedi tra cinque anni? Mi sto toccando.

La cosa a cui nella vita non vorresti mai rinunciare. La libertà di manifestare il mio pensiero.

Quella cosa di te che nessuno ha mai saputo (fino ad ora). Si viene sempre a sapere tutto.

Piatto preferito: Tagliatelle al ragù.

Le scuole di recitazione servono o quel che conta è avere fortuna? Sono necessarie, come i Conservatori per chi vuole suonare Beethoven e le piscine per chi vuole praticare il nuoto. Purché siano scuole serie e non corsi acchiappacitrulli. La fortuna serve dopo, per fare gli incontri giusti. E se non ne hai almeno un po’, è dura. In ogni caso, prima devi studiare e farti il mazzo. Un fortunato che non ha i “fondamentali” non può andare molto in là.

vittorio franceschi6C’è parità di trattamento nel teatro tra uomini e donne? Se ci riferiamo alle paghe e ai nomi in cartellone, direi di sì. Il problema è che nelle migliaia di testi scritti fino a oggi i personaggi femminili sono in netta minoranza. Per questo le donne lavorano meno degli uomini. Il ruolo subalterno della donna nella società e nella storia – con rarissime eccezioni – ha consentito che anche nella drammaturgia l’uomo fosse predominante. Non è un caso che gli autori fossero tutti uomini. E non è un caso che proprio negli ultimi tempi le donne abbiano cominciato a raccontare – e a raccontarsi – da sole sul palcoscenico. A buon diritto, stanno riempiendo un vuoto.

Mai capitato di dover rifiutare un contratto? Sì, più volte. Ma non era un “dovere”, era una scelta.

Di lasciarti sfuggire un’occasione di lavoro e di pentirtene subito dopo? Sì, una volta. Ma non mi sono pentito subito. Il pentimento richiede tempo.

Quale ruolo ti sarebbe piaciuto interpretare nel cinema? Robin Hood. E anche Cavallo Pazzo, grande guerriero Sioux. Ma non avevo il fisico.

Quale ruolo ti sarebbe piaciuto interpretare in teatro? Alceste, nel Misantropo di Molière. Un personaggio che sento vicino. Ma non mi è mai capitato e ormai è tardi.

Da chi vorresti essere diretto? Da Benno Besson e da Massimo Castri, se ci fossero ancora. Due grandi che ho avuto la fortuna di conoscere bene.

Vittorio Franceschi3Tre doti che bisogna assolutamente possedere per poter fare l’attore. Buona tecnica, buona memoria e buona salute. Se posso aggiungerne una quarta: un po’ di talento.

Tre difetti che non bisogna assolutamente avere per poter fare questo mestiere. 1) credere che le mani siano state create da Dio per essere tenute in tasca o sventolate in aria. 2) Pronunciare solo la prima metà di una parola, convinti che l’altra metà si pronuncerà da sé. 3) Usare il dito indice puntato come Giuseppe Garibaldi quando scaccia lo straniero.

Cosa accadrebbe all’umanità se il teatro scomparisse? Niente di grave, lo inventerebbe di nuovo il giorno dopo.

Gli alieni ti rapiscono e tu puoi esprimere un solo ultimo desiderio. Quale? Casaaa…

La frase più romantica che ti sia capitato di dire in scena. Michel: (correndole incontro) «Corinne, amore mio dolce, finalmente! L’attesa mi consumava!».

La frase più triste che ti sia toccato di dire in scena. Michel: (cinque mesi dopo, con voce rotta) «Mamma, Corinne aspetta un figlio da Gilbert».

Dimentichi le battute: graziato o condannato? In genere il pubblico non se ne accorge e i colleghi sono sempre solidali, così in qualche modo s’aggiusta (sanno che potrebbe capitare anche a loro). Ma il terrore che si legge nei loro occhi quando questo succede, è difficile da raccontare.

Cosa vorresti che la gente ricordasse di te? Che non ho mai bluffato.

Hai mai litigato con un regista per una questione di interpretazione del personaggio? Discusso sì, litigato mai. È materia sempre opinabile, non ci sono verità assolute, l’animo umano è sbilenco e alle volte si ha l’impressione che nemmeno l’autore sapesse bene dove andava a parare. Quindi: se ho stima per il regista, anche se non sono convinto del tutto seguo il suo disegno cercando di farlo mio: remare contro è da cretini e accettare che possa aver ragione lui è segno di maturità. E poi, fra persone intelligenti ogni errore si può individuare e correggere in corso d’opera. Se invece non ne ho stima (ahimè, capita) faccio a modo mio, facendogli credere che sia stato lui a darmi quell’indicazione “geniale”. Funziona sempre, e lui poi ti dice: “bravo, hai capito che cosa volevo”! Tutti contenti.

Se potessi svegliarti domani con una nuova dote, quale sceglieresti? Se per dote intendi un’attitudine, vorrei essere portato per la fisica, la matematica e la cosmologia, e capirci qualcosa del Big Bang.

Se potessi scoprire la verità su te stesso o sul tuo futuro, cosa vorresti sapere? Non voglio sapere niente di tutti questi impicci.

vittorio franceschi5Se sapessi di dovere morire, che cosa cambieresti nella tua vita? Guarda che lo so di dover morire. Comunque non cambierei nulla, anche perché mi mancherebbe il tempo per capire se ho fatto bene a cambiare. E poi non ne avrei motivo, io sono stato fortunato: mia moglie era una donna meravigliosa, ho un figlio fantastico, ho fatto una carriera discreta e malgrado l’età godo ancora di buona salute. I miei amici più cari dicono che ho avuto culo e hanno ragione.

Che cosa è troppo serio per scherzarci su? La pensione.

Progetti futuri? Dal prossimo 12 gennaio, all’Arena del Sole di Bologna, terrò una “sei giorni” di letture di testi miei. Ogni sera un testo diverso, tre di questi mai rappresentati. Letture integrali, interpreterò tutti i personaggi (uno solo nasce come monologo) e alla fine inviterò il pubblico a esprimere il suo parere sul mio lavoro e in generale sul teatro di oggi. Ho chiamato questo progetto “Segue dibattito”. Ma non c’è nessuna ironia morettiana, al contrario: voglio cercare di far parlare sul serio gli spettatori, provare a scuoterli da quella sorta di torpore che ormai pare possederli fin dal loro ingresso in sala. Capire cosa pensano, perché vanno ancora a teatro e cosa si aspettano da noi, oggi. Se il pubblico prende la parola, forse facciamo tutti un passo avanti. Forse.

Un consiglio ad un giovane che voglia fare l’attore. Stagione 1978/79, recitavo il Tartufo. Alla fine di una matinée per le scuole al Comunale di Ferrara, un gruppo di ragazzi venne a salutarmi in camerino. Fra loro, una ragazzina smilza e un po’ timida, che ad un certo punto mi chiese: se io volessi far l’attrice, cosa dovrei fare? Domanda terribile… io ebbi una breve esitazione, poi le dissi: compra una valigia e prendi un treno. Era esattamente quello che avevo fatto io vent’anni prima. Spesse volte ho pensato “chissà quella ragazzina”… perché ogni tanto mi tornava in mente, ma ovviamente non sapevo il suo nome e tanto meno se avesse poi deciso di far l’attrice per davvero. Un giorno (trent’anni dopo!) un amico al quale avevo raccontato questa storia, mi telefonò per dirmi che per caso aveva scoperto chi era! A cena con dei colleghi, la sera prima, un’attrice che era seduta al suo tavolo, essendo stato fatto il mio nome, gli raccontò la stessa storia che gli avevo raccontato io. E aggiunse che aveva comprato una valigia e preso un treno. Quell’attrice è Maria Paiato.

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