Lettera da Ankara
La rete di Erdogan
La Turchia è nell'occhio del ciclone della politica internazionale: Putin attacca Erdogan e Obama lo difende. Tra errori e speranze, bisogna ripartire da Ankara per costruire il futuro
Non abbiamo fatto in tempo a esprimere qualche speranza per la Risoluzione Onu 2254 sulla Siria che su Idlib le bombe hanno subito spento nel sangue di civili innocenti ogni barlume di ottimismo. Sotto le macerie provocate da un bombardamento aereo russo, ma le etichette ormai interessano poco, quando uccidono i civili le bombe sono “stupide” per definizione. E tutti possono diventare carnefici, volontari o meno. I siriani continuano a morire, mentre in Occidente si discute inutilmente e si continuano a scrivere “fesserie”; nonostante le sirene dell’allarme terrorismo suonino sempre più forti, la Siria è ancora un problema lontano. Nonostante le ondate di profughi abbiano ricordato all’Europa quanto il Mediterraneo sia piccolo e a molti disperati quanto le sue acque siano profonde. Lo spauracchio islamico è ormai nella campagna per le presidenziali Usa, grazie a Donald Trump, ottimo imprenditore, pieno di senso comune, privo di senso dello Stato. Vi ricorda qualcuno?
In Europa alcuni dipingono Recep Tayyip Erdogan (RTE), come un politico da ridimensionare, punire, riportare sul sentiero della democrazia, abbattere, dimenticando che è diventato il guardiano delle frontiere d’Europa più incerte e pericolose. Un personaggio a metà tra il film noir e la commedia all’italiana: a seconda di quale propaganda si voglia proporre. E ha vinto nelle urne. Lo si dipinge seguendo il Cencelli dei media, ci sono quelli che lo vorrebbero disarcionare, che seguono un’agenda precisa, filo-russi, filo-francesi, filo qualcosa, oppure quelli che lo guardano con sospetto, dandosi di gomito: «Ha la moglie che porta il velo». Lo si accusa di mire mediorientali perché aveva inviato 150 uomini e qualche mezzo nel nord dell’Iraq per addestrare i peshmerga e dare una mano contro IS. Ricordiamo che in Iraq è vox populi che la Turchia supporti il Califfo. E il governo iracheno avrebbe voluto vedere Ankara condividere gli sforzi militari contro le milizie nere. Ma Baghdad ha il nervo scoperto sulla provincia irachena del Kurdistan, ne sa qualcosa il governo italiano che ha dimenticato di coordinarsi con gli iracheni prima di annunciare l’invio di 450 militari per difendere la diga a nord di Mosul. Forse a Roma sono poco informati, i peshmerga recentemente hanno sparato sulle Hashd al Shaabi (Pmu), le unità di mobilitazioni popolari controllate dal ministero degli Interni iracheno, impegnate proprio per la riconquista di Mosul.
L’esiguo impegno turco, più che dovuto a una scarsa volontà, sarebbe la conseguenza della guerra giudiziaria contro lo strapotere delle forze armate, una battaglia sancita nel 2010 da nuove regole che ponevano gli uomini in divisa sotto la giurisdizione di tribunali civili. Le ferite sono ancora aperte e RTE non può ancora fidarsi completamente del proprio esercito. Figuriamoci farsi coinvolgere in una guerra vera. Un argomento che in seno al governo di Ankara nessuno avrebbe il coraggio di confessare. Erdogan, ossessionato dai timori di cospirazioni straniere per strappargli il potere – ci ha montato una campagna elettorale –, ha rischiato di isolare la Turchia proprio nel momento in cui la storia la chiamava a svolgere un ruolo regionale fondamentale. Viene definito “schiavo” della Nato, agli ordini di Washington, ma non si ha idea di quanto questo rapporto sia stato ricucito a fatica e sia ancora fragile. Insomma, quando si scrive di Turchia fa fede l’appartenenza “ideologica”, i fatti interessano poco.
Un bell’esempio è stato il mantra dello scontro turchi-curdi in Siria e Iraq, salvo poi scoprire quanto fossero saldi i rapporti tra Ankara ed Erbil, tra Erdogan e Barzani. I “compagni” europei che versano fiele quando parlano di RTE dovrebbero farlo focalizzando le critiche sul trattamento verso i giornalisti e oppositori, sui limiti posti alla rete e alla libertà di informazione, non verso gli “amici” del Pkk che hanno una lunga storia di terrorismo, anche se periodicamente annunciano un “deponete le armi”. Un bell’esempio è stato l’arresto di Bulent Kenesh (lo stesso giorno dell’attentato ad Ankara) caporedattore di Today’s Zaman, che ho avuto occasione di intervistare nel 2010, quando era in prima linea nella battaglia per ridimensionare il potere dei militari. Una vittima dello scontro di potere tra governo e gulenisti e forse di qualche twitt di troppo. Ma ci dobbiamo accontentare, questo passano i media.
Stessa storia per il petrolio di SI, sulla scia delle presunte rivelazioni di Putin, che qualche motivo per non amare i turchi l’avrebbe. Dell’abbattimento del cacciabombardiere russo parleremo poi. Per fortuna l’agenzia Reuter ha fatto giustizia: chi contrabbandava petrolio da quelle zone in passato lo fa anche oggi e poco importa chi sia a venderlo. E la tracciabilità dei barili del Califfo è assai problematica. Un file da passare agli investigatori turchi, magari corredato dalle foto dei satelliti russi. Per diversi giorni le stigmate del diavolo erano però passate su RTE, che ripetiamo ha tutte le ragioni per essere criticato politicamente, ma almeno evitando di entrare nel campo della fiction. Qualche tempo fa ci era cascato anche una firma illustre del giornalismo anglosassone come Robert Fisk, un esperto di Medioriente che sta sempre dalla parte più debole nei conflitti, i civili. Fisk aveva veicolato la teoria di un collega (Seymour Hersh) su di un presunto complotto di Ankara in Siria. Utilizzo del gas Sarin (a Ghouta) per improbabili progetti geopolitici. Vi ricordate? Era la primavera del 2014. La notizia era stata piazzata all’interno di un articolo più ampio sulla Turchia di RTE. Ma stonava con lo stile preciso e acuto del resto del pezzo. Una bufala. E alla luce di ciò che sta emergendo in Italia (leggere Colonia Italia di Fasanella e Cereghino) sull’attivismo britannico nel controllo occhiuto e scaltro dei media per “guidare” la politica italiana, a quanto pare, dall’Unità in poi, sarebbe bene che i cugini inglesi si dessero una calmata. La corona non brilla più come un tempo e i danni provocati da quest’attivismo “ingerente” possono anche essere irreparabili.
Veniamo al caso del Sukhoi 24, il cacciabombardiere russo abbattuto il 24 novembre scorso dai caccia turchi. Una impercettibile invasione territoriale, fatta a 6mila metri di quota, durante una missione di attacco al suolo. I piloti russi non si saranno neanche accorti dello sconfinamento durato meno di 20 secondi. Gli appelli radio fatti presumibilmente sulla frequenza di emergenza 121.5 che i russi non avevano sintonizzato, neanche sentiti. I turchi li stavano aspettando. In precedenza c’erano stati sconfinamenti più decisi. Se Ankara ha peccato di eccesso di difesa, i russi hanno le loro colpe. Il Cremlino non ha tenuto conto che nella fascia di confine non ci sono solo popolazioni turcomanne, come è stato ripetutamente scritto, ma anche cittadini turchi. Le famiglie miste sono migliaia e i legami transfrontalieri molto forti. I bombardamenti russi che, senza i designatori obiettivi a terra sono tutt’altro che chirurgici, da tempo stavano esaurendo la pazienza turca. Ora Putin continuerà a mostrare i denti per il pubblico russo e internazionale, ma sa bene, come lo sa anche RTE, quanto sia interesse di entrambi i paesi che la tensione si stemperi il prima possibile. Le già esauste casse di Mosca hanno bisogno dell’assegno annuale di Ankara per la bolletta di gas e petrolio, tanto per fare un esempio. Mentre per Ankara, essere momentaneamente, e non convintamente allineata con Washington, non vuol dire avere in tasca una polizza assicurativa. Gli errori politici si pagano. Erdogan dovrebbe imparare in fretta i meccanismi della Nato per volgerli a proprio favore. Ha capito chi comanda in Europa ed ha fatto pressing su Angela Merkel. Se dovesse riuscire a leggere bene la politica estera Usa, potrebbe garantirsi una sorta di tregua e lo spazio politico internazionale per fare ciò che i turchi gli chiedono, dietro la bandiera di un nazionalismo ancora molto forte, con cui la cultura di RTE deve fare i conti: cioè rimettere in moto l’economia turca che sta affondando. Washington è in Medioriente controvoglia, perché guarda a Oriente. La Cina è la vera preoccupazione, perché con gli Usa c’è uno scontro sistemico che non ha, in apparenza, una soluzione. La prima dovrebbe consumare meglio, i secondi meno. E una politica estera strabica non è mai buona.
Ma il cahier de doléance occidentale non è finito. Facciamo un esempio diretto. Esterno giorno, 5 dicembre, aeroporto Ataturk di Istanbul. Dopo il check-in, il controllo di sicurezza turco si accorge di un piccolo coltello militare (lama circa 8 cm) che pensavo di aver perso l’anno scorso. Era nascosto in una tasca interna del mio zainetto “tattico”. Allora, come ipotizzabile, quel coltello è passato inosservato alle verifiche aeroportuali di molte località ad alto rischio negli ultimi mesi. Un altro mito da sfatare: il controllo totale non funziona. La massa di passeggeri da ispezionare è enorme e le competenze nel “leggere” le schermate o utilizzare altri detector sono insufficienti. Turni massacranti, personale poco addestrato, esigenze logistiche, sono solo alcune delle ragioni che dovrebbero far riflettere su come sia “patetica” la pretesa della sicurezza assoluta. Tanto per restare nell’ambito assai limitato di questa esperienza. Siamo nell’era degli spostamenti di massa che generano modelli economici e politici. Era dunque prevedibile che il sistema dei trasporti diventasse di per sé un obiettivo del terrorismo. Pochi minuti prima, sempre al check-in per Tunisi, davanti a me c’erano 4 siriani che avrebbero voluto imbarcarsi. Destinazione finale: la Libia. Personale turco in allarme, verifica documenti e biglietti. Suggerimento di prendere un volo diretto. Risultato: il mio volo ritardato di 3 ore, probabilmente per un controllo supplementare dell’aeromobile. Volo per Mosca del mattino cancellato.
Le fotografie sono di Pierre Chiartano