Francesco Arturo Saponaro
A proposito de “I Bassàridi” all’Opera di Roma

Il trionfo di Dioniso

Meritato successo per la tragedia musicata da Hans Werner Henze, ispirata alle “Baccanti” di Euripide, che ha inaugurato la stagione operistica romana. Memorabile allestimento sotto la direzione di Stefan Soltesz e con la regia di Mario Martone

Insolita apertura di stagione per il Teatro dell’Opera di Roma che ha inaugurato il nuovo cartellone con un titolo moderno e, si può dire, sconosciuto ai più: The Bassarids (I Bassàridi, uno degli appellativi anticamente attribuiti ai seguaci del dio Dioniso), del compositore Hans Werner Henze (1926-2012), tedesco di nascita e di formazione, ma per molti decenni residente in Italia. La vicenda è ispirata alle Baccanti di Euripide, tragedia fra le più autorevoli del teatro greco classico: un testo tremendo, misterioso, che non offre soluzioni, bensì interrogativi profondi, nei quali sono presenti temi che ci angosciano, e che risultano sempre attualissimi, come l’intolleranza e la violenza. Un mondo di figure, umane e divine, la cui condotta è sconvolta da conflitti di potere, che coinvolgono e colpiscono le masse inermi. La vicenda poggia sul conflitto fra Pènteo, re di Tebe orientato al governo della ragione, del diritto, della moderazione, e il dio Dioniso che, esigendo di stabilire il proprio culto, inizialmente si presenta dispensando i propositi più lusinghieri e accattivanti, ma s’impone infine nel trionfo della sfrenatezza, dell’istinto e della crudeltà estrema. Un quadro complesso, di non facile lettura, che si avvolge in ulteriori intrichi nella riscrittura moderna, predisposta per la messa in musica.

bassaridi 2Ricevuta nel 1963, dal Festival di Salisburgo, la commissione di un’opera, Henze per la stesura del libretto si rivolge al poeta britannico Wystan Hugh Auden e al suo compagno, lo statunitense Chester Kallman. Un duo illustre, che aveva già creato per Stravinskij, anni prima, il testo di The Rake’s Progress (La carriera d’un libertino), e, per lo stesso Henze, di Elegia per giovani amanti. Individuata la fonte nel dramma di Euripide, il libretto è scritto in lingua inglese, donde il titolo The Bassarids. Tra l’altro, per la prima esecuzione a Salisburgo (1966) e la successiva circolazione nei teatri germanici, il libretto è tradotto in tedesco; così come, alla Scala nel 1968, sarà tradotto in italiano. Consuetudine antica e ancora diffusa in quei tempi, da qualche decennio abbandonata in favore dei libretti in lingua originale (con accese, irrisolte dispute pro e contro) per rispetto della primitiva prosodia. Uso, quest’ultimo, oggi ormai consolidato definitivamente, grazie all’impiego dei sopratitoli con traduzione in italiano.

The Bassarids è un’opera nella quale emergono varie suggestioni ispirative, che comunque, come tutta la musica di Henze, si tengono ben lontane da quelle avanguardie radicali che hanno condizionato i linguaggi del secondo Novecento. Si tratta, in ogni caso, di un’opera che funge da punto di riferimento non soltanto nel catalogo del compositore tedesco, ma, osservandola retrospettivamente, nell’intero teatro musicale del secolo scorso. Sul piano del linguaggio musicale è un lavoro molto riuscito, proprio perché, lungi dai settarismi stilistici del dopoguerra, non impone un profilo stereotipato, ma esprime la vicenda in un affresco palpitante e continuamente mutevole. Il che richiede un eclettismo che comunica, in ritmi intensi e con plastica incisività dell’azione, il potente groviglio di soggetti ed energie che si contrappongono sul palcoscenico. E la partitura funziona egregiamente, senza momenti di caduta o di autocompiacimento, coinvolgendo a fondo l’ascoltatore.

bassarid 3Henze centra il bersaglio grazie alla forma particolare che l’opera assume, in un continuum compositivo che è ottenuto dalla stretta mescolanza tra l’incalzare dell’azione e della condotta vocale da un lato, e il robusto tessuto strumentale, quasi sinfonico, dall’altro. Non a caso l’orchestra riveste un ruolo protagonista, con la sua multicolore tavolozza di idee. Da qui la scrittura musicale manifesta pienamente quel conflitto che è alla base del mito e della visione di Henze, e che si sostanzia nell’urto fra Pènteo e Dioniso, fra razionalità e religione, fra libertà e tirannia. Il che lascia anche spazio a qualche oasi spiccatamente lirica, come in Dioniso o come nella disperazione di Agàve davanti alla salma del figlio Pènteo, da lei stessa appena smembrato in un accesso di cieca azione orgiastica, appunto dionisiaca. E, accanto alle risorse della contrapposizione melodica, il musicista non trascura un altro versante strategico, vale a dire il terreno del ritmo, del fremito pulsante, degli accenni di danza; tutti stratagemmi che, con sapiente distribuzione di squarci percussivi, contribuiscono ad attingere l’indispensabile colore drammatico.

Nell’insieme, dunque, una partitura e un linguaggio che risultano decisamente moderni, aggiornati nel sapersi ben calare nella situazione drammatica, con felice sensibilità, e vigile distanza da possibili scivolate manieriste. Ed è un coerente dipanarsi di linee espressive, di volta in volta avvolgenti o ruvide, ma sempre aderenti alla situazione teatrale, grazie anche al sapiente caleidoscopio di soluzioni orchestrali. Già lo squillo iniziale delle trombe introduce all’atmosfera e agli schemi della tragedia antica, così come l’ampia presenza del coro, detentore di bellissime pagine, rese magnificamente qui all’Opera, grazie al lavoro preparatorio del maestro Roberto Gabbiani. Sicché l’irriducibile reazionario che sul finire di una replica, armato di fischietto, contestava con tenacia degna di miglior causa, ha catalizzato due risultati non voluti. Il primo è stato che il volume degli applausi si è subito raddoppiato. Il secondo è stato di divertire, dopo l’iniziale indignazione, molti dei presenti. Autentico soldato giapponese dimenticato nella giungla, l’isolato oppositore ha bizzarramente conferito a Henze una patente di avanguardista che avrebbe fatto molto sorridere il compositore, a lungo scomunicato proprio dai bidelli della sperimentazione senza se e senza ma.

Italy Venice Film Festival 2014Memorabile l’allestimento offerto dal Teatro dell’Opera, grazie all’autorevole direzione di Stefan Soltesz, che ha condotto orchestra e coro a una resa encomiabile, rivelando tutto il fascino e le recondite suggestioni di un’opera di alta qualità, e soprattutto offrendo all’attenzione dell’ascoltatore le eleganti sfumature e i chiaroscuri che connotano la partitura. Molto lodevole la prova del cast, tanto più considerando che nessuno dei cantanti è specialista del Novecento o di musica contemporanea. Per la bella riuscita della non facile impresa, tutti meritano di essere ricordati: Ladislav Elgr come Dioniso, il Pènteo di Russell Braun, il Cadmus di Mark S. Doss, Erin Caves come Tiresia, la bravissima Veronica Simeoni negli impegnativi panni di Agàve, Sara Hershkowitz in quelli di Autònoe, Sara Fulgoni come Bèroe, e il Capitano di Andrew Schröder.

Ma un contributo decisivo alla qualità dello spettacolo l’ha offerto la regia di Mario Martone (nella foto sopra), che è stato affiancato da Sergio Tramonti per le scene, da Ursula Patzak per i costumi, con disegno luci di Pasquale Mari e movimenti coreografici di Raffaella Giordano. In questi Bassàridi la lettura del regista napoletano, già conoscitore per altre esperienze delle Baccanti euripidee, ha creato alcune straordinarie soluzioni. La scena è dominata, sul fondo, da un immenso specchio ricurvo di lamiera. Valga per tutte l’idea di riflettervi una zona altrimenti invisibile al pubblico, per sottolineare con forza la piega ultraterrena e irrazionale che prendono i fatti; per cui Martone ha scoperchiato una parte del palcoscenico e collocato sotterraneamente un episodio di sfrenamento orgiastico, che ci dice essere le potenze dionisiache ormai già presenti nella reggia e nella Tebe di Pènteo. Dall’inizio alla fine, un progetto incisivo e aderente alla drammaturgia musicale. Superfluo aggiungere che l’importante fatica collettiva ha meritato pieno successo.

Facebooktwitterlinkedin