“Il segreto” di Roberto Carifi
Il dolore necessario
Nella nuova raccolta continua il confronto estremo del poeta pistoiese con le asperità della vita, con l’incombenza della morte e il dolente cantilenare dei versi fa male. Eppure è un male consolante, appagante nella sua umanità. Come accade solo nella vera poesia…
Della poesia di Roberto Carifi ho scritto più volte, sottolineandone le coordinate e lo strenuo confrontarsi con le molteplici asperità della vita, ma è sempre doveroso riprendere i fili della sua scrittura e parlare delle nuove versioni, del suo camminare sull’orlo del precipizio. Oggi ci giunge un esile libretto, con trentasei poesie di questi ultimissimi anni. Già il titolo si pronuncia in tutta la sua sospesa, invocante, tensione: Il segreto (Le Lettere), quasi un anticipo del discorso poetico, che non conterà però verità nascoste, ma solo verità estreme, solo una remissione delle parole sull’altare di un ultimo dire (e riprendendo le parole di Heidegger, uno dei grandi filosofi di riferimento di Carifi, «il segreto non è una barriera situata al di là della verità, ma è esso stesso la forma più alta di verità»). Come sempre siamo assai coinvolti nella lettura di una poesia che scende nella dimensione più vertiginosa, in una perfetta continuità con la precedente produzione poetica, continuità dove non c’è un ripetersi, bensì il rinnovare sempre una ferita che più vera non può esistere.
Parliamo di continuità, perché anche in questi versi scorgiamo la forza poetica, la diaccia parola, il difficile tentativo di dare una traccia al senso delle cose (con quella profonda riflessione teorica che lo distingue), la sensazione del disagio, l’amaro cogliere il tempo della fine. Non c’è quindi una rottura rispetto ai versi precedenti, anzi si fa più aspro, più teso, più disperato il volto del poeta. Si fa più presente il senso di smarrimento, più forte «l’urlo che lacera i cortile», più sentito il percorso del calvario, più vicina la cristica sofferenza. Oltre la siepe non vedo la luce (riprendendo il titolo della bella recensione su La Lettura di Roberto Galaverni), bensì il «gracidare dei corvi» che senza sosta «arano i corpi sfatti dalle piene».
Un esile libretto, che è un concentrato terribile di disperate invocazioni, di piaghe profonde, di desolanti passaggi, di sospesi approdi, come in questi versi: «immacolata tristezza delle mie ossa/ andrò per le lanterne, per i cuori sbagliati/ e il mattino, quando mi sveglierò,/ sentirò un dolore acuto,/ il mare non è più niente/ anche l’immensa distesa/ non è più la stessa». Ciò che conosciamo fin dai lontani (1982) versi di Morte di Giovanni, quel filo spinato che inchioda il lettore a un letto di costrizione, perché Carifi sa dire molto di ciò che non riusciamo a intendere della vita, o della fredda morte. Libro intimo sicuramente, ma che si tramuta in un linguaggio universale, in temi essenziali che sono di tutti. Questo anche relativamente alla disperata malattia che avvolge l’Occidente con il suo difficile futuro (e che Carifi già accennava in una sua raccolta del 1990, titolata appunto Occidente) e che ritroviamo anche in questa fulminante poesia: «Tutto andrà in rovina, i cimeli d’occidente/ cadranno, le immagini affonderanno/ i canali di scolo prenderanno il posto/ di false pergamene,/ la cornacchia lancerà il suo solito grido/ i vermi affamati si getteranno sulla preda/ simile a un osso».
Più di altre volte qui non ci sono mediazioni possibili, anche per il disperato linguaggio di un corpo dolente, che si accompagna al pianto sulla figura della madre che aveva caratterizzato il libretto precedente (Madre). Carifi, lo si sente tanto vicino e coinvolgente quando si confronta con questi segmenti della vita, i temi che attraversa con la lama del vedente, con la povertà dell’escluso, con la santità del condannato e che sono il nocciolo della sua poesia (rispetto a quelli della partecipazione buddista). «La sorte è segnata a caso» dice Carifi che sente il corpo andarsene, come una parte non sua, ormai sconosciuta, una terra nemica, eppure guardata con tenerezza, come «quella gamba destra che è un letamaio», quel corpo che è «un tronco, una misera acacia», perché oggi «sono un ferito/ non ho che le braccia squartate,/ i malleoli che mi impongono di attendere». Una necessità doverosa quel vigilare un corpo che si fa campo di battaglia, lontananza siderale, necessità impellente per vivere una dignitosa stagione, per riappropriarsi di un lacerto di luce mattutina, o «una ricerca di illuminazioni… a me che è stato fatto male». Quel corpo, quella nudità del corpo, che è una rivelazione dell’anima, l’apparire di una interiorità, di una intimità, che urge allo sguardo e allo stesso tempo si vela, perché non può che proteggersi nel suo manifestarsi così precario e indifeso.
Carifi guarda il presente e il futuro che quasi sente negato, quel dolore per non avere più neppure «un antro segreto/ dove passare le estate», perché «sarò per sempre andato», un antro che è un semplice ingresso del palazzo dove vive, dove prendere un poco di fresco nel caldo estivo di Pistoia, quando la città è deserta e non rimane che quello spazio angusto dove stare, dove farsi riconoscere da qualche passante amico o meglio «mi rifugerò dai pochi passanti ignoti», e diventare così una parte di una casa, una parte di quella via disabitata e muta come il proprio dolore, desolata come il proprio cuore («Se il vento di dicembre sbatte le porte/ la semina è finita ed io lascio tutti i miei averi/ che sono pochi, nulla,/ ad occhi ciechi»), socchiuso ormai alla passione e alla luce ansiosa delle stagioni, ai progetti e alle decisioni, vigile solo un poco rispetto alle idee poetiche, e assai di più alla luce del Volto di Cristo, o alla Terra Pura.
Ci incalza il ritmo del suo dire, del suo inventare, anche nell’emergere di figure nuove, come la comparsa di animali e cose, però tutte cacciate nel solco di una fine: «la gabbianella a strapiombo sul mare» o i montoni o gli uccelli avvizziti, il crepitare del merlo, «i vermi che mi agitano le membra», gli insetti, il «brulichio di formiche», le «bestie strane… esseri esangui che guardano il mare» e altro, molto altro che non è nuovo, ma ansimante come il mare appunto, che «non è più niente». Connotati duri, sicuramente, eppure vorremmo dire al possibile lettore di questo aureo libro, che la poesia di Carifi fa male nel suo dolente cantilenare, ma mai fa male, perché pur accostandosi a temi così estremi e pur essendo intessuta di dolore, come la vera poesia (vedi Pascoli) lascia sempre un senso di meraviglia, di consolante costernazione, di appagamento interiore, di umana condivisione, di conoscenza partecipata, di osservazione vasta e sorprendente, di superamento dell’incomunicabilità personale, di avvicinamento ai momenti più sensibili dell’esistenza. È come un necessario inoltrarsi verso una dimensione ulteriore, o uno sconforto obbligato ma non nemico, o un desolante abbraccio, eppure tanto umano. E pensiamo che tutto sia spiegabile con quella parola che si chiama poesia, quella grande, che si impone, e non ci sono sbarramenti o un dire nero, c’è lo stupore di una parola che incontra le sensibilità degli animi, che avvicina alla conoscenza e alla verità, o forse non incontra nulla, ma si giustifica da sola per il semplice motivo di essere raccontata e vissuta nella via perenne dello sguardo del poeta, che è anche quello di tutti noi. Come in questi versi.
Le domeniche tristi, nell’ombra dei platani,
rannicchiato dietro un rovinoso andazzo,
morte che rasenti le mura dei palazzi
e le topaie sgangherate,
la sorte è segnata a caso.