Un racconto inedito
Il disprezzo
«Lui, avvocato, senatore della Repubblica, grande manipolatore politico, furbo, protetto dal vertice del partito, si era vantato di averla tolta dalla strada e dal degrado»
La trovava sempre in quello stato la sera, quando tornava dal Parlamento. Lui, senatore, aveva mille responsabilità, mille preoccupazioni, mille problemi. E, poi, quella richiesta della Procura di rinvio a giudizio gli era arrivata tra capo e collo, come un macigno. Se aveva fatto quella cosa… beh, lo aveva fatto per lei, per il lusso smodato nel quale voleva vivere, la troia. E ora che aveva saputo, lo disprezzava. “Io ti disprezzo!” Così aveva urlato con l’alito che puzzava di whisky.
«Ascoltami, Gilda, se tu mi disprezzi, devi disprezzare anche te. Da dove veniva il danaro per riempire gli armadi di vestiti firmati, per i gioielli, per le vacanze a Cortina, alle Maldive, alle Seychelles, per la Jaguar verde, perché faceva pendant col colore degli occhi? Da dove veniva il danaro per le palestre, per i migliori istituti di bellezza di Roma e di Milano, per i più rinomati chirurghi plastici che, di tanto in tanto, dovevano fare “il tagliando”, come dicevi tu. Su che base mi disprezzi? O credevi che tutto venisse dallo stipendiuccio di senatore? Su, rispondi!».
«Io ti disprezzo. Sei un mediocre».
«Gilda, tu queste parole non le devi pronunciare! Non capisci che mi feriscono mortalmente, che sono troppo offensive e ingiuste per la mia sensibilità? Tu dici di disprezzarmi, ebbene ora ti dico una cosa che ti farà cambiare opinione: io un po’, anzi più di un po’ di danaro, un bel gruzzolo l’ho salvato. Tutto è in mano al ragioniere Palumbo, tieni presente? Quello che tu prendi sempre in giro. È persona affidabile al mille per mille, gli ho dato ordini tassativi; qualunque cosa dovesse capitare a me, lui si deve mettere a tua disposizione, per non farti mancare niente. Nessuna rinuncia, nessun sacrificio, capisci? Allora, ancora pensi che io sia un uomo da disprezzare?».
«Sì, lo penso».
«Gilda, amore mio, perché sei così carogna? Perché vuoi umiliarmi? Perché vuoi vedermi piangere? Che altro posso fare per te, che altro vuoi da me? Avanti, parla! Qualunque cosa».
«Devi leccarmi il culo, dopo che ho defecato!».
«Va bene, lo farò. Ma tu, ti prego, non dirmi che mi disprezzi!».
Ecco, momentaneamente, le bastava. Lei, ormai, ne poteva fare quello che voleva. Le era venuto in mente di stabilire che, in sua presenza, lui non dovesse mai restare in piedi eretto, doveva sempre camminare a quattro zampe come una bestia e magari fare chicchirichì come il professore di Marlene Dietrich nell’Angelo Azzurro. Poi cambiò idea.
Lui, avvocato, senatore della Repubblica, grande manipolatore politico, furbo, protetto dal vertice del partito e protettore di una quindicina di parlamentari coi quali poteva adombrare ricatti e inserirsi nelle commissioni più rappresentative e preposte alla gestione del potere economico, si era vantato di averla tolta dalla strada e dal degrado, di averle dato un nome di prestigio e quella vita lussuosa dalla quale sembrava impossibile tornare indietro.
Ma Gilda sapeva che lui non poteva avere rapporti fisici con altre donne, sapeva anche che aveva tentato con prostitute di alto bordo senza riuscire. Lei aveva una buona amicizia, suffragata, peraltro, da qualche sortita sessuale, con l’autista dell’auto blu, un calabrese che non parlava mai a vanvera e le permetteva di sapere tutti i movimenti del marito e tutti quei tentativi andati in bianco. Era, quindi, ben consapevole che solo con lei il marito poteva coltivare l’orgoglio di sentirsi un uomo, benché la ejaculatio precox, che fatalmente caratterizzava le prestazioni quindicinali del senatore, era per lei deprimente e, oggettivamente, ridicola.
Si, lo si poteva tenere al guinzaglio in altri modi, non le mancavano né la fantasia, né il cinismo. Intanto doveva accertarsi che il gruzzolo gestito dal fido Palumbo (il coglione, come lo appellava) fosse veramente consistente e che…
All’indomani Gilda, mentre tracannava il primo whisky della giornata, sentì dal telegiornale che il fido ragionier Palumbo era stato arrestato a Ventimiglia, mentre tentava di scappare all’estero. In un primo momento le venne da ridere: il coglione, pensò, ma subito dopo le apparve chiara la situazione.
La crisi isterica di Gilda fu spettacolare con la koinè scatologica, che le era propria e che, ora, nella resa dei conti, era evidentemente irreprimibile. Frantumò un vaso prezioso che il marito aveva portato dalla Cina, ruppe lo specchio antico dell’800, quando, andando su e giù, alla maniera di una belva in cattività, si vide riflessa come una mentecatta; chiamò «sporca negra», la cameriera filippina che le voleva preparare una tisana, per calmarla: «Signora, non buono momento, poi passa».
«Ma che dici? Che capisci tu? Porca puttana, mi dovevo mettere con questo imbecille, che si fa trovare con le mani nel sacco, con questo avvocato del cazzo, il senatore dei miei coglioni. Teneva il fido Palumbo, il fido, la merdolina che si fa arrestare a Ventimiglia. Il fido Palumbo, il leccaculo, il servo coi soldi nella valigia, che si è fatto sequestrare. Il gruzzolo, un bel po’… Nessuna rinuncia, nessun sacrificio, il cazzo c’è rimasto! Dove voleva scappare lo stronzo? Una donna del mio livello, una promessa del varietà, sexy, affascinante, mettersi con questa gentaglia, che non sa nemmeno rubare. Merda, merda, merda! È finita, è finita!». Gridava con la voce roca di fumatrice.
Il senatore non era in casa. Tornò dopo mezzanotte. Andò dritto nello studio, apri con la chiave il terzo cassetto della scrivania ed estrasse la sua vecchia colt 45. che era sempre carica per eventuali intrusi da tenere a bada. l’intruso, però, stavolta, era lui stesso. Non era stupido e aveva capito che non aveva scelta. Era meglio farsi da parte una volta per sempre. Il colpo alla tempia ebbe un esito immediato.
La filippina, la mattina dopo, alle otto e trenta, come era solita fare, andò a bussare alla porta dello studio del senatore col vassoio del caffè. Lui le notti, negli ultimi tempi, le passava lì, nello studio, sia per l’insonnia di cui aveva sempre sofferto, sia per il rifiuto della moglie di tenerselo accanto nel letto matrimoniale. Nello studio poteva leggere, senza dare fastidio: generalmente un giallo a notte in attesa di qualche ora di sonno sul divano, che non arrivava mai prima delle quattro o cinque del mattino.
«Strano che non risponde – pensò Dalisay, la filippina –. A quest’ora è sempre sveglio».
Bussò un’altra volta, poi, piano piano, aprì la porta e vide. Non si poteva sbagliare. Vide la colt caduta sulla scrivania e il rivolo di sangue, ormai secco, che scendeva dalla tempia destra.
Dalisay non gridò. Non corse dalla padrona e nemmeno dalla cuoca in cucina. Poggiò il vassoio sul tavolo delle fotocopie, si avvicinò al cadavere, lo baciò sulla fronte gelata e, silenziosamente, pianse.