A cent’anni da “Il Porto sepolto”
Il canto nuovo di Ungaretti
«Quando io trovo/ in questo mio silenzio/ una parola/ scavata è nella mia vita/ come un abisso»... Con la prima raccolta del grande poeta nasce una poesia tesa, drammatica, spezzata, profonda, non ricopiata da nessuno, sostenuta da forza morale e da «un delirante fermento»
Giuseppe Ungaretti nacque ad Alessandria d’Egitto ai primi di febbraio del 1888. Il padre Antonio aveva lasciato Lucca dove faceva il contadino per lavorare come sterratore al Canale di Suez. Prese un’infezione e da allora non stette mai bene. Fece tuttavia venire da Lucca la fidanzata Maria Lunardini che aveva 28 anni. Trovò un marito fisicamente distrutto, mentre si ricordava di un fidanzato in Lucchesia forte – raccontava Ungaretti – come un toro con «baffoni folti alla Stalin». Arrivò la cancrena e il poveretto ebbe anche l’amputazione alle gambe. Erano nati due figli, Costantino nell’ ’86 e Giuseppe nell’88. Il padre era ricordato da Ungaretti come un uomo molto generoso, onesto, dalle mani bucate. Alla moglie e ai figli aveva lasciato ben poca eredità ma un forno che lavorava abbastanza. La madre lo mandò avanti con molta energia ed ebbe l’accortezza di preparare il pane anche per i molti stranieri che vivevano ad Alessandria. Così il benessere della casa fu assicurato. «Mia madre – racconta Ungaretti – era volontaria all’eccesso e naturalmente non si abbandonava che molto di rado alla tenerezza». Era molto religiosa, ma anche molto libera e tollerante. Da casa Ungaretti non furono mai allontanati atei, anarchici, evasi da domicilio coatto, perseguitati: se bussavano alla porta trovavano aiuto o ricovero.
La casa dove nacque Ungaretti era fuori porta, «in una zona in subbuglio, una baracca con la corte – ricorda il poeta – le galline, l’orto e tre piante di fichi fatti venire dalla campagna di Lucca». In casa venne a stare per aiutare la mamma una anziana donna croata che raccontava favole ai ragazzi in un modo talmente fantastico da accendere la loro fantasia. Fino a 15, 16 anni Ungaretti fu in collegio all’Istituto Don Bosco e poi in scuole superiori francesi. Lì arrivavano riviste letterarie come il Mercure de France che pubblicava anche poesie di Baudelaire e di Mallarmé. C’erano anche libri e Ungaretti fu colpito, anche se in giovane età, dalla poesia di Mallarmé: diceva che una poesia può affascinarti e colpirti al cuore con la sua musica anche se non ne intendi ancora il significato letterario.
Ebbe due grandi amici, Moammed Sceab (che poi lo raggiunse a Parigi e si suicidò) ed Enrico Pea. Sceab amava sopratutto Baudelaire ed era molto influenzato da Nietzsche che colpì anche Ungaretti (disse poi il poeta che gli ci volle molto tempo per scrollarsi di dosso il Superuomo). Pea veniva dalla Versilia, aveva fatto molti mestieri, il mozzo, il servitore, l’aiuto di bottega finché mise in proprio una sorta di negozio dove si vendevano prodotti che venivano dalla Toscana, anche marmo e vino. Era semianalfabeta e imparò a leggere e a scrivere sulla Bibbia tradotta dal Deodati, un lucchese protestante. E fu un grande scrittore: Ungaretti lo ammirò e lo aiutò sempre, vennero libri di poesie che Ungaretti fece stampare in Italia e quel capolavoro che è Moscardino. Avevano entrambi rapporti con i letterati di Firenze della Voce, particolarmente con Jahier. In uno stanzone da lui affittato Pea mise su la “Baracca rossa”, ritrovo di anarchici e di evasi dal domicilio coatto venuti da tutto il mondo per mettersi in salvo: Ungaretti e Sceab ne furono intraprendenti collaboratori.
Pea lo vide così: «Un bel ragazzo biondo, qualche pelo alla nazarena nel mento gli faceva il viso un po’ lungo. Le labbra grosse e la bocca larga e sensuale e i capelli tanti e arruffati nella fronte spaziosa. Gli occhi celesti e mansueti tradivano la bontà del suo animo anche nell’impeto dell’ira» (disse più tardi Ungaretti: «Non ho che superbia e bontà»).
Nel 1912 Ungaretti riuscì a persuadere la madre di farlo partire per l’Europa. La madre del resto si convinse del forte carattere e dell’intelligenza del figlio e decise di finanziarlo perché studiasse Legge a Parigi. Racconta poeticamente Ungaretti il viaggio in nave verso l’Italia: «Picchi di tacchi picchi di mani/ e il clarino ghirigori striduli/ e il mare è cinerino/ trema dolce inquieto/ come un piccione // A poppa emigranti soriani ballano/ A prua un giovane è solo» e le luci di Alessandria si allontanano.
Ungaretti sbarca a Brindisi e risale lentamente l’Italia. Si ferma poco a Roma ma qualche giorno di più a Firenze. Incontra gli amici che già aveva sentito dall’Egitto e visita gli affreschi di Masaccio. Si stupisce poi nel rivedere nella faccia della gente le stesse caratteristiche dei personaggi degli affreschi. Un modo diretto per riconoscere la tradizione. Non ha mai visto le montagne e si stupisce e si commuove a vederle. Sale fino all’Abetone con Jahier. Quando prosegue il viaggio, dopo una breve sosta a Milano (e lì nascono anche delle poesie) punta diretto su Parigi. Si sistema in una piccola pensione del quartiere latino, non pensa neanche per un momento di seguire le lezioni dì diritto, segue il corso del grande filosofo Bergson che tanto lo influenzò specialmente per quanto riguarda il suo futuro libro Sentimento del tempo. Frequenta anche le lezioni sulla Chanson de Roland. Dopo altre vicende viene richiamato, torna in Italia e va, fante, in trincea. Avendo un titolo di studio di insegnante di francese ottenuto a Torino, frequenterà di lì a poco un corso allievi ufficiali: fu bocciato perché “inetto al comando”. E Ungaretti ne fu lieto: considerava gli uomini al suo stesso livello, fratelli: «Di che reggimento siete/ fratelli?». Siamo in guerra, cominciano le poesie del Porto sepolto scritte 100 anni fa in trincea, insieme agli altri fratelli: i soldati.
Deldicembre del ’15 sono le prime due poesie. Una dice: «Una intera nottata/ buttato vicino/ a un compagno/ massacrato / (…) / ho scritto/ lettere piene d’amore // Non sono mai stato/ tanto attaccato/ alla vita». Cos’è per Ungaretti la poesia? «(…)/ è il mondo l’umanità/ la propria vita/ fioriti dalla parola/ e la limpida meraviglia/ di un delirante fermento // Quando io trovo/ in questo mio silenzio/ una parola/ scavata è nella mia vita/ come un abisso». 2 ottobre 1916: chiude il Porto sepolto.
Sboccia una poesia nuova, tesa, drammatica, spezzata, profonda, non ricopiata da nessuno, fondata sui rapporti degli uomini con la propria vita, nata da una forza morale e dall’ispirazione, ispirazione che deriva da «un delirante fermento». Quando Ungaretti partì nel ’12 da Alessandria non aveva composto poesie, solo qualche traduzione da Poe, per esempio, e qualche collaborazione a giornali: un’anima intatta che viene marchiata a fondo dall’esperienza della poesia. Respinge retorica, dichiarazioni, discorsi, crea un nuovo linguaggio, una nuova metrica.
«In memoria/ di/ Moammed Sceab/ discendente/ di emiri nomadi/ suicida/ perché non aveva più/ patria // Amò la Francia/ e mutò nome in/ Marcel/ ma non era francese/ e non sapeva più/ vivere/ nella tenda dei suoi/ dove si ascolta la cantilena/ del Corano/ gustando un caffè // E non sapeva/ sciogliere/ il canto/ del suo abbandono (…) E forse io solo/ so ancora/ che visse // Saprò/ fino al mio turno/ di morire». È la prima poesia del Porto sepolto, 30 settembre 1916.
Nel porto di Alessandria era rimasto un antico porto tolomeo inghiottito dal mistero. Svelare il segreto, appropriarsene fin dove è possibile perché il mistero non potrà mai essere svelato pienamente, e quello che ha capito, quello che porta in sé renderlo noto a tutti gli altri. Ecco Il porto sepolto: «Vi arriva il poeta/ e poi torna alla luce con i suoi canti/ e li disperde // Di questa poesia/ mi resta/ quel nulla/ d’inesauribile segreto».
Ungaretti non era religioso, era ateo, ma quanta carità, quanta misericordia c’è nei suoi versi e lui stesso comincia a dubitare: «Quel contadino soldato/ si affida alla medaglia/ di Sant’Antonio/ che porta al collo/ e va leggero/ ma ben sola e ben nuda/ senza miraggio / porto la mia anima», e ancora: «Chiuso tra cose mortali / (anche il gran cielo stellato finirà)/ perché bramo Dio?». Sono tanti i morti della guerra, i soldati, i compagni e Ungaretti non li dimentica: «Nel mio cuore/ nessuna croce manca».
Siamo a quello che si può definire il primo poema di Ungaretti. I fiumi, 16 agosto 1916. Seguiranno nel tempo La pietà del ’28 e poi Roma occupata del ’43. Nei Fiumi Ungaretti ripercorre le epoche della sua vita: «(…)/ (…) / Questi sono/ i miei fiumi/ questo è il Serchio/ al quale hanno attinto/ duemil’anni/ forse/ di gente mia/ campagnola / (…) / questo è il Nilo/ che mi ha visto/ nascere e crescere/ e ardere di inconsapevolezza / (…) / questa è la Senna/ e in quel suo torbido/ mi sono rimescolato/ e mi sono conosciuto / (…) / Questo è l’Isonzo/ e qui meglio/ mi sono riconosciuto/ una docile fibra/ dell’universo /».
Il Porto sepolto esce a Udine in 80 copie. Lo ha curato Ettore Serra, un tenente, letterato, che incontra Ungaretti al fronte. Ungaretti gli consegna le sue poesie scritte su fogli di taccuini, su cartoline in franchigia, perfino sugli involucri delle cartucce. Ma Ungaretti pensava già per suo conto a fare un libro delle sue poesie: ne aveva scritto all’amico Marone a Napoli perché gli facesse un preventivo per la pubblicazione – diceva «un migliaio di versi». E i versi del Porto sepolto pubblicato a Udine sono circa la metà.
L’abbiamo visto: c’è il dolore, ci sono le croci, ma c’è la speranza, c’è l’illusione: «Ungaretti/ uomo di pena/ ti basta/ un’illusione/ per farti coraggio».