“Tempo ordinario” di Enrico Fraccacreta
I luoghi e l’anima
La natura, la tradizione, l’amore, la sacralità, l’infinito muoversi del tempo… Quello del poeta pugliese è uno sguardo sul mondo che ci ha attraversato e che ci accompagnerà, partendo dalla memoria di una vita. Un vigilato lirismo sulle orme di Luzi, Bertolucci, Heaney
I dati della vita materiale raramente si colgono nella scrittura poetica, il lettore difficilmente li ricerca, eppure, seguendo anche la lezione di Gaston Bachelard, dovremmo fare maggiore attenzione a tutto questo, perché tale mondo è pieno di suggestioni e immaginazioni, di riferimenti, di storie, di esperienze, di relazioni che si intrecciano con il vissuto di ciascuno di noi. Sicuramente non si fa fatica a comprendere questa dimensione vitale e antropologica leggendo le poesie di Enrico Fraccacreta (Tempo ordinario, Passigli Editore), poeta che vive a San Severo, nel centro del famoso Tavoliere, la piana così ricca di olivi, di grano, di viti (con le secolari incantevoli cantine), di tradizioni, di passati latifondi, di lotte contadine (Di Vittorio nacque e operò qui vicino), di folclore, di miseria e di grandi conoscenze agricole. Uno spaccato di meridione che è stato per un lungo tempo, ma ancor oggi, una straordinaria ‘miniera’ di cibo e di luoghi di rude bellezza, con le sue terre distese all’infinito, con la collina garganica che si affaccia discreta e imperiosa allo stesso tempo, tesa a delimitare questo infinito. Qui troviamo ancora una popolazione che vive nel sudore della terra, nel dialetto cantilenante, nella passeggiata sul corso, con accanto la magnificenza di certe chiese e palazzi. Un centro che vive della ricchezza della terra ma che soffre anche dei recenti grandi cambiamenti sociali, con le nuove difficoltà economiche e il consolidarsi di una certo malessere sociale.
Fraccacreta vive e osserva appieno questo luogo dell’anima, lui che viene da una famiglia illustre della zona, con antenati filosofi, economisti, letterati, ma che sorpassa tutto per guardare in modo attento e partecipato, sottile e generoso la sua terra, i suoi luoghi. E allora ecco le mura, le pietre, le belle masserie (per quanto «Il futuro della masseria/ non fa figli ma colonne di benzina»), i boschi, gli attrezzi agricoli. La poesia per lui non è stringersi a se stesso, ma relazionarsi con tutto ciò che lo circonda, soprattutto attraverso la sentita figura del padre o dei braccianti che hanno lavorato e lavorano quel nero suolo con applicazione e grande sapienza; è dire degli amici (tra cui Andrea Pazienza, suo caro amico, che lì visse fino ai venti anni, e di cui Fraccacreta ha pubblicato anche una affettuosa biografia), dei giovani d’oggi, pronti con la valigia a espatriare da quel sofferto Tavoliere, e di cui non resteranno che poche tracce («Cosa resta dopo la partenza,/ il vento del treno che innalza/ le foglie stampate con i vostri nomi/ negli angoli dei parchi/ delle vie, sulle tesi di laurea/ le enciclopedie…»).
Credo che sia un valore aggiunto per un poeta raccontare dei propri luoghi, perché lì dove si è vissuto e si vive, si misurano la prospettiva dello sguardo e la profondità del cuore, nel bene e nel male, con le tante immagini e le storie che non si possono abbandonare, ma conservare, compresa una contemporaneità senz’altro disadorna e problematica («ora non c’è più nulla da scalare/ ma attraversare/ il deserto del greto/ con l’orma sprofondata nella sabbia/ quasi sino al cuore»), ma che è necessario capire, magari operando, come egli fa, nell’ambito culturale promuovendo iniziative di poesia e d’arte, o, come fa la consorte Elvira, cantata in una bellissima poesia d’amore («…al fischio prolungato/ nella stazione invernale/ quando l’aria della pioggia me l’annuncia/ lo stesso ti amerò, senza bagaglio/ e tempo perso…»), organizzando corsi di filosofia per i giovani.
Quella di Fraccacreta quindi è senz’altro la poesia dei luoghi, ma non i generici ‘posti’ fini a se stessi, perché ogni fotogramma ogni sequenza di quel paesaggio si lega strettamente alla memoria e alla indagine forte sul nostro passato e sul nostro futuro. È Tempo ordinario un libro fortemente riflessivo («resta la mancanza/ la domanda di questi anni/ lo stupore e il silenzio/ della grande differenza/ resta la distanza/ l’intervallo che ha lasciato/ il respiro trattenuto/ lo spazio bianco tratteggiato»). È uno sguardo sul mondo che ci ha attraversato e che ci accompagnerà, partendo proprio dalla memoria di una vita.
In questa profonda e anche dolorosa riflessione c’è un elemento che ci pare che emerga con nitidezza, la pena per la mancata trasmissione della tradizione, sia quella del sapere agricolo, sia quella culturale, e ciò si avverte nella poesia del poeta come struggimento, ferita aperta e con il timore che questo sia il grande vuoto che giunge incontro, seppure vi siano sussulti vitali, di speranza: «basta la notte di dicembre/ a sgomberare le nuvole dal cielo/ si riflette tutta la verità della terra,/ la neve dell’inverno ne nasconderà le tracce/ quel che pare stia morendo/ ogni volta sta per nascere». È Tempo ordinario un libro fissato sul tanto che i padri potevano consegnare alle nuove generazioni e non lo hanno fatto, sulla necessità di riappropriarsi di una tradizione che non può essere abbandonata pena l’eclissi di una comunità, una colpa evidente che non può sempre essere ribaltata sui figli, anzi forse solo la tenerezza della confessione potrà ridare dignità alla propria storia, quello che Fraccacreta fa in una bella poesia dedicata ai figli: «Il tempo si è messo dietro i nostri occhi/ ed è stato subito inverno/ non dovevamo pensarci/ ma solo regolare la fiamma di una volta,/ dovevamo partire sulla freccia incoccata/ nell’arco degli antenati/ e tornare dal viaggio/ senza aver tradito nessuna/ delle nostre deboli impronte».
L’altra riflessione forte del poeta è sul tempo, già nel titolo Fraccacreta parla di un tempo ordinario, che è il tempo che passa e in qualche modo ci travolge con la propria ineluttabilità, a cui egli forse antepone il tempo della vita passata nell’infinito muoversi fra affetti e amicizie, lavoro nei campi e relazioni profonde, tra il flusso del vento e «il battito muto del cuore». Oppure più semplicemente «il tempo è l’amore», quello donato nel volgere della vita e che sembra sempre manchevole, perché il tempo dell’amore in verità è un tempo infinito o «solo un posto dove s’approda». Oppure il tempo è quello scandito dalla natura, che ha segnato la vita degli uomini per un illimitato periodo, o trascorre con i suoi infiniti segreti, con i suoi misteriosi passaggi come quando «il boato diventa forte/ le querce non si muovono/ foglie e ali restano nel vento trattenuto./ – Il tempo continua ancora -/ dicono i rami irrigiditi delle querce,/ solo la musica è cambiata». Forse il tempo della natura è il reale tempo, con i suoi ritmi che Fraccacreta, forestale di laurea, conosce assai nell’osservazione delle piante, e ricorda con questi versi: «Le vecchie querce al limite del bosco/ se ne infischiano del vento/ hanno avuto spazio le radici/ hanno avuto tempo/ le chiome cresciute sul girotondo del prato».
La poesia di Fraccacreta è una poesia misurata sui passi certi di una sentita vocazione, mossa da intuizioni forti e mai sbilanciata in un dire eccessivo, una scrittura fedele a un canone scolpito nella geografia di un vigilato lirismo, una poesia anche essenziale, mai basata su trame che svicolano nel vuoto del non senso, contenuta nella più vasta tradizione poetica, sia quella italiana nobile di un Luzi o di un Bertolucci, sia quella inglese di un Heaney. Del primo il discorso del sacro o più semplicemente della sacralità della figura umana e inoltre quella convinzione di «ricercare la rifondazione nella poesia e nel pensiero» come ebbe a dire Cacciari del poeta fiorentino, del secondo l’attenzione a quella virtuosa cronaca familiare che è in verità un’attenzione ai sacri cicli della vita, del Nobel irlandese l’interesse agli eventi, ai fatti, alle cose materiali che ci ‘abitano’.