A proposito de “Il bel tempo di Tripoli”
Grottesco italico
Il giornalista Angelo Angelastro ha raccolto le memorie di Filippo Salerno che negli anni Trenta partecipò alla farsa imperiale del fascismo in Africa. Un documento impietoso sul carattere degli italiani
Spietata, autentica e grottesca fotografia dell’Italia negli anni in cui, dal 1935 al ’36, s’impadronisce dell’Africa orientale allargando il suo impero coloniale. Partiamo subito dal settembre ’35: si fanno vedere le fioche luci di Massaua, in Abissinia. Faceva molto caldo. Il Battaglione Lucano s’accosta al litorale. Silenzio cupo, a parte certe frasi urlate: “Battaglioni della Milizia da una parte, unità dell’Esercito dall’altra! Non vi accalcate, perdio…Ufficiali a rapporto nella sede del Comando!”. Uno degli attendenti del campo esclama: “Camerati del Meridione benvenuti all’Inferno! State tranquilli, non morirete di canicola…ognuno di voi ha diritto ad alcune zolle di ghiaccio. Verranno distribuite tra poco dai gregari dubat”. Il capitano Filippo Salerno del 256° Battaglione Camicie Nere è perplesso: ”Ghiaccio?”. I commilitoni anche. Molti sghignazzano, e hanno tutte le ragioni per farlo. I papaveri dell’Alto Comando spiegano: “Quel ghiaccio dovete sistemarlo sulla testa, sotto i caschi. È una misura contro i colpi di calore decisa dai signori della Logistica coloniale”. Cominciano a marciare mentre il ghiaccio si scioglie e bagna i volti. Pare un esercito che piange a dirotto prima di premere il grilletto dei fucili e lanciare bombe a mano. Riferisce Salerno: “Le piste dell’entroterra eritreo erano sconnesse…assopirsi, tra un balzo su una buca e l’altro era difficile. I miei erano quasi tutti contadini e avventizi delle costruzioni. Venivano da paesi della Lucania e della Puglia. Cercavano tutti quel che conteneva la promessa del duce: un posto al sole, una nuova terra dove far fortuna.
Filippo Salerno non ha scritto le sue memorie, le ha dettate al magnetofono del giornalista Rai Angelo Angelastro nel 1982. Dopo la morte dell’ufficiale nonché avvocato, Angelastro decide di tradurle in un lungo racconto a forma di romanzo. Veritiero dall’inizio alla fine. E ora pubblicato dalla casa editrice e/o con il titolo Il bel tempo di Tripoli, 229 pag., 16 euro. Una testimonianza formidabile su quel misto di violenza, pressapochismo e grottesco italico. I militi al seguito di Filippo Salerno non avevano dubbi: dopo l’invasione sarebbero diventati i nuovi padroni dell’Etiopia, in un’atmosfera tra la menzogna e l’enfasi: “Dobbiamo affondare la lancia della superiorità romana!”. Già. Non pochi ricordavano la vergognosa sconfitta dei coloni italiani ad Adua, nel settembre del 1896. Al comando c’era il tenente generale Oreste Baratieri, poi destituito. Ad affrontare i 30/40 abissini guidati dal Negus Menelik l’Italia aveva schierato 100/120 uomini. Una batosta di quelle che lasciano il segno. E, nello specifico, un freno a mano nella macchina bellica italiana che voleva annettere il Corno d’Africa.
Poco prima di partire verso l’Africa, Salerno aveva discusso con la moglie Ivana, poco incline a dar credito al regime fascista e come molte donne meridionali scettica sull’ intento civilizzatore così tanto sbandierato dal balcone di piazza Venezia. Di fatti ammoniva: “Attento Filippo! L’eliminazione della schiavitù non c’entra proprio nulla. Il progetto è di prostituire quella gente. Privarla della sovranità nazionale. Distruggere tradizioni e abitudini di vita per affermare la sete di potere dei nostri governanti. Come fai a non capirlo?”. Salerno lo capì settimane dopo lo sbarco in Abissinia, senza per questo trasformarsi in un dissidente. Anzi, vista la sua preparazione culturale, ebbe incarichi prestigiosi e divenne capo ufficio stampa per l’intera zona conquistata. Circostanza questa altrettanto grottesca perché chi gli propose la nomina partiva dal fatto che l’ufficiale-avvocato aveva scritto qualche articoletto, e mica poi tanti, su un giornaletto di provincia (pugliese).
Facile per lui prendere appunti e scattare fotografie, e comprendere così che l’impresa bellica aveva tanti, tantissimi risvolti comico-drammatici. C’era la malaria, infuriavano le zanzare, quegli uomini abituati al cielo terso del meridione italiano temevano sempre l’agguato dei mulinelli di polvere rosa. Veniva distribuito continuamente il collirio. “A ognuno di noi” scrive il giornalista Angelastro facendo proprie le parole di Salerno “vennero consegnati un moschetto 1891 e uno zaino nel quale doveva trovar posto tutto, compresi i fucili mitragliatori. Che non provenivano dalle industrie italiane: si trattava di prede belliche sottratte agli austriaci durante la prima guerra mondiale. Eppure, al momento della partenza, il mercato già offriva le mitragliatrici Fiat-Revelli 14, decisamente più maneggevoli ed efficienti di quei cimeli arrugginiti”.
Poi la faccenda dei muli, molti dei quali requisiti dal Comando Divisione o dal Comando di Corpo d’Armata. “Così successe al mio manipolo” ricorderà Salerno “I cento muli che domammo prima della partenza finirono nella disponibilità di questo o di quel generale. Gli animali resistettero comunque poco al clima africano: furono presto colpiti da peste equina e morirono quasi tutti in breve tempo. Allora, per trasportare i pesi più ingombranti non ci restò che provare con gli asinelli abissini. Se ne vedevano migliaia”. E gli abissini come reagirono? “ Fummo, di fatto, ignorati in quanto invasori. E presto anche il più esaltato fra noi dovette ammettere che stavamo mettendo il cappello della trionfante Italia sulla più sfuggente fra le realtà del continente nero”. Salerno e battaglione ebbero il primo contatto col popolo del Leone di Giuda. Racconta Salerno: “Ci avvicinammo con estrema cautela. Non c’erano solo civili; qualcuno ostentava sciabole, vecchie carabine e scudi. Intimammo l’alt e li disarmammo. Parlavano freneticamente, tutti insieme, in una lingua che suonava oscura e involuta. Un uomo a dorso d’asino sembrava primeggiare sugli altri. Un tipo aitante, alto circa un metro e novanta, capelli nerissimi, barbetta riccia. Vestiva con pantaloni di taglio militare, sahariana e stivali. Sulla testa portava un gran cappellacio a falde larghe. Scoprii dopo, con meraviglia, che risultava confezionato in Italia. Era un autentico Borsalino”.
Una gran fatica nel costruire strade carrozzabili – più di quante l’intera Etiopia avesse mai avuto fino ad allora – nel Tigrè. Bisognava spaccare la roccia, che era resistentissima. Si lavorava a mani nude. Per realizzare l’arteria che collegava Dabat a Debarech morirono 300 italiani. “Solo a strada completata, i primi ad attraversarla furono proprio i corpi di quei ragazzi. Fu allestito un cimitero per loro”. E avanti, verso l’interno. Ad alcuni fu assegnato il compito di presidiare la zona del Taccazè, dove la malaria cominciò a decimare gli uomini Quaranta gradi, dal mattino alla sera.. Si moriva in 24 ore. C’era un fiume, approfittarono per pescare. Molti coccodrilli, e non leopardi ed elefanti come era stato raccontato loro. Candelotti di dinamite uno dietro l’altro, ma i pesci venivano subito trascinati dalla corrente.
“Dopo la proclamazione dell’impero” riferisce Salerno con la penna di Angelastro, “la 252° Legione venne sciolta e quasi tutti i miei commilitono dovettero far ritorno a casa. Con buona pace delle speranze di terra e lavoro. Solo per un numero limitato di loro si avverarono le promesse del Regime”. Il nostro Salerno approda infine ad Addis Abeba, dove la Milizia “priva ormai di compiti militari, svolse funzioni di supporto all’amministrazione dell’impero”. Addis Abeba era adagiata su un immenso territorio, che superava per dimensioni quello di Parigi. Era però facile scambiarla per un villaggio del Far West, con migliaia di case di legno ai margini delle strade. Era indispensabile muoversi in auto. I mezzi militari erano così rumorosi da provocare un folle inquinamento. Poi, vista la disinvoltura criminale degli autisti, ogni giorno si doveva contare non meno di sette-otto morti ogni giorno, per incidenti. Clacson a tutto andare, inoltre. Fu proprio Salerno a proporre la circolazione silenziosa. Fu applicata in tutto il Corno d’Africa. I morti diminuirono di molto.
Le poche costruzioni in pietra della città furono realizzate da imprese italiani a partire dal 9 maggio ’36. Gli stranieri sgraditi al governo furono espulsi. Pure gli inglesi. I tedeschi, che sarebbero stati bene accolti, non mandarono neppure i propri rappresentanti. Buoni affari per le comunità degli armeni, greci e indiani. Non poche erano le cosiddette baronesse, che nobili non erano affatto. Avevano avuto una vita avventurosa in Italia e cercavano lì nuove fortune. Spesso accompagnavano i vari faccendieri, i quali le usavano come esche negli ambienti del potere. La corruzione dilagava. Precisa Salerno: “Se accettavi mille lire da qualcuno per agevolare un certo affare incorrevi in un reato. Ma se costui ti faceva andare a letto con la sorella o la moglie per la stessa ragione, nessuno aveva nulla da ridire. Dopo una certa iniziale rigidità, le autorità italiane lasciarono fare. Le maitresse francesi che gestivano l’ambita casa di piacere dell’albergo tabarin “La Mascotte” furono sostituite dalle italiane, soprattutto milanesi, con tanto di licenza. Centinaia di donnine reclutate in Italia dovevano seguire un corso di due mesi di addestramento. Il contratto durava sei mesi ed era rinnovabile. Con quel poco che c’era da spendere in colonia, molte raccimolarono cifre consistenti, qualcuna addirittura un milione. La Questura tuttavia vietava qualsiasi contatto al di fuori delle case chiuse. Una delle prostitute di Addis Abeba, particolarmente parsimoniosa, Salerno la reincontrò a Roma. Circondata da soldi, solitudine e lutti.
Ci si domanderà come mai il libro-testimonianza di Angelo Angelastro ha Tripoli nel titolo. In effetti l’ultima parte del testo parla di Tripoli, dei suoi intrallazzi e della pochezza della nuova classe dirigente italiana. Una scelta dell’autore, consapevole che il “bel suol d’amore” è sinonimo dello sgangherato impero d’oltremare italiano.