L'elzeviro secco
Einstein e Dio
Sono passati cent'anni dalla teoria delle relatività. Spazio e tempo hanno assunto dimensioni nuove. Ma anche scienza e religione hanno trovato nuove dimensioni...
Nel 1905 Albert Einstein spedisce tre articoli agli Annalen der Physik, la più prestigiosa rivista scientifica in Europa. Al tempo, era impiegato all’ufficio brevetti di Berna. Il terzo di questi articoli è la trattazione della “relatività ristretta”, che illustra sinteticamente lo sconvolgimento in atto nella fisica per mano del suo maggiore – non ancora riconosciuto – interprete. Dieci anni dopo, nel novembre del 1915, a seguito di un lungo periodo tormentato da dubbi e lacerazioni, manda alle stampe un articolo che demolisce definitivamente la gravitazione universale di Newton. La nuova teoria, nota con il nome di “relatività generale”, sostiene che lo spazio sia una delle componenti concrete del mondo.
Influenzato da Maxwell che aveva scoperto il campo elettromagnetico, Einstein comprese che il campo gravitazionale da lui proposto, non era semplicemente circonfuso nello spazio, ma era lo spazio. Lungi dall’essere freddi, vuoti e asettici contenitori, lo spazio e il tempo appaiono come entità “materiali”, granulose, che si flettono e si storcono a seconda delle curvature provocate dai corpi celesti. Dov’è la materia, lo spazio si curva. L’immagine che mi viene alla mente è quella di una lavandaia, magari dipinta da Millet, che sbatte le lenzuola, appena lavate, all’aperto.
Il secondo lavoro di Einstein inviato in quel famoso 1905 agli sbalorditi redattori degli Annel der Physik (che, letti gli articoli di seguito, cominciarono a strepitare, piangere, ubriacarsi, lacerarsi le vesti…), conteneva delle osservazioni-chiavistello che avrebbero spalancato il portone alla seconda teoria fisica fondamentale del Novecento, questa volta indirizzata al mondo infinitamente piccolo: la meccanica quantistica.
La luce è fatta di pacchetti di energia, i “quanti”, che sono composti di corpuscoli reali saltellanti (il “salto quantico”) e si distribuiscono in fasci non continui. Di nuovo l’universo, anche nei suoi effetti microscopici, dimostra di essere qualcosa di estremamente tattile, tangibile. Qui ho come immagine di riferimento lo zucchero di canna che scivola dalla bustina in un flusso di piccoli grani o il paesaggio urbinate spolverato dal tramonto.
Il principio di indeterminazione di Heisenberg, dedotto dalle considerazioni di Planck, Einstein e Bohr, mette in crisi il determinismo causale del grande fisico tedesco. Non si può prevedere un tanghero di nulla, perché la realtà può non sussistere a prescindere dall’osservatore. Se giro gli occhi, quel bricconcello dell’elettrone già non c’è più. Si possono fare soltanto delle previsioni. Questa volta è Einstein ad alzare i pugnetti per la disperazione. Secondo il ragionamento di Heisenberg, scaturito da un dialogo interiore con Platone in taxi (sic!), gli elettroni non esistono sempre. Si materializzano in un luogo, con una certa probabilità, quando qualcosa li stimola, simili agli spiritelli del Carnevale. Quando però nessuno li disturba, gli elettroni sono in un non luogo. Questa concezione sui generis stranamente imbizzarriva Einstein, che progettava esempi teorici a scopo esemplificativo sempre più articolati, per sbugiardare la combriccola di Copenaghen. Ma con scarsi risultati: Niels Bohr, l’arguto risolutore di esperimenti mentali, lo convinceva sempre a rivedere le sue posizioni.
Einstein, da buon razionalista spinoziano, non sopportava l’aleatorietà della realtà oggettiva; di qui la famosa frase «Dio non gioca a dadi». La risposta di Bohr fu altrettanto celebre: «Non dire a Dio come deve giocare». Dopo molti anni, intervenne sulla questione anche Stephen Hawking con un diplomatico «Dio gioca sì a dadi, ma lo fa in un posto in cui nessuno può vederlo».
Oggi, al genetliaco di un secolo, la meccanica quantistica e la relatività sono ancora teorie incompatibili fra loro. Il macrocosmo che descrive la struttura dell’universo non coincide con il microcosmo delle particelle elementari. Tra le due descrizioni permane una discrepanza ab origine che rende differenti le immagini del mondo con cui esse si intrattengono.
Questo enigma è concettualmente risolto dall’episodio dell’Annunciazione. Tra la domanda dell’angelo Gabriele e la risposta di Maria c’è un lasso di tempo infinitamente piccolo, che comunque traspare dal passo del Vangelo. È il tempo della scelta, il tempo della meccanica quantistica. L’angelo torce lo spaziotempo con la sua richiesta giunta direttamente da Dio.
Il filosofo Jean Guitton, in un saggio mariano, scrive: «L’angelo Gabriele – forza di Dio – parla a Maria della potenza creatrice che stava per manifestarsi in un concepimento verginale. Dopo le parole dell’angelo, benché nessuno ce lo dica, supponiamo un silenzio. Non era necessario che questo silenzio fosse lungo. Ma, lungo o breve, un momento era necessario. Momento di tremore. Momento di ponderazione. Momento in cui le forze si riuniscono. Ci fu mai un momento simile sulla terra e nel cielo? Non momento di dubbio, di esitazione, ma momento di scelta e di libertà. Momento che precede il “sì”. Nell’eternità immutabile e tuttavia vivente, le Tre Persone sono attente a questa svolta della loro opera eternamente concepita. Ecco la chiave di volta dell’architettura mobile del tempo. Tutto dipende da questo momento. Le promesse divine sono sospese a questo momento. E la liberazione delle nazioni e il riscatto degli uomini. Miliardi di esistenze sono interessate a ciò che sta per avvenire in un istante impercettibile».
Maria non è un essere determinato, sebbene sia concepita senza il peccato originale, e dunque in maniera un po’ determinata. Ecco, la sua condizione immacolata è la relatività generale, il macrocosmo in cui la realtà oggettiva è prevedibile, ordinata, perfetta. Ma quel brevissimo attimo di silenzio, attimo in cui persino la divinità attende, quasi sporgendosi dal vaso scoperchiato dell’esistenza, per sapere cosa ne farà una giovane donna di Nazareth del suo progetto di redenzione universale, è la meccanica quantistica. Benché esista un forza regolatrice, l’uomo è libero. Se l’infinitamente grande resta determinato dalle sue leggi plastiche, all’infinitamente piccolo è concessa la scelta, l’opzione, la personalità. Come le particelle elementari fluttuano tra l’esistenza e la non esistenza, così la scelta appare e scompare dal mazzo di carte della vita. Le due teorie ugualmente vere, ugualmente diverse, sono salve.