Ucraina metafisica
Il Madre di Napoli rende omaggio a Boris Mikhailov, grande fotografo ucraino che ha raccontato (sfidando censura e galera) il fallimento del dopo-Urss. Di qua e di là dalla Russia
Boris Mikhailov al Madre. Non è solo un omaggio al grande fotografo ucraino, ma l’inizio del nuovo corso del museo partenopeo che, a dieci anni dalla sua istituzione, pone le basi, proprio con questa mostra-evento, per la realizzazione di una rete strategica di collaborazioni con istituzioni e centri culturali che dall’epicentro Napoli si allarga al Belpaese e al mondo. Tre i primi soggetti coinvolti in questo progetto, “primo capitolo”, a firma del presidente della Fondazione Donnaregina Pierpaolo Forte: il Polo museale della Campania, diretto da Mariella Utili, con la perla di villa Pignatelli che, complice la ritrovata intesa con gli Incontri internazionali d’Arte di Gabriella Buontempo si sta plasmando in Casa della Fotografia; il Museo Filangieri, allestito nel quattrocentesco palazzo Como, tremila capolavori che rivedremo dal 5 dicembre con la definitiva riapertura al pubblico; Camera Centro italiano per la fotografia di Torino che il primo ottobre, sotto la direzione di Lorenzo Bravetta, ha aperto in via delle Rosine la sua piattaforma di incontro e ricerca con la corposa retrospettiva dedicata all’artista di Kharkiv corredata da un libro coedito con Walther Ksning.
Due esposizioni importanti sull’asse nord-sud. Due sguardi incrociati sull’ampia produzione, tra reportage e sperimentazione, dell’ex ingegnere che ha usato l’arma dell’obiettivo per ridicolizzare il regime sovietico e raccontarne i disastri e la disfatta. Andrebbero entrambe viste come un’unica narrazione di un testimone del tempo che, attraverso il corpo e la nudità, ha indagato la “bellezza del terribile” facendo debuttare la realtà sul palcoscenico. Camera (fino al 18 gennaio), con la curatela di Francesco Zanot, ha puntato i riflettori sul rapporto tra Mikhailov e la sua patria: oltre trecento opere, dagli esordi degli anni Sessanta fino alle recenti manifestazioni in Ucraina, attraverso i diversi linguaggi da lui utilizzati, dal ritaglio delle immagini fotografiche agli inserti pittorici sulle foto, dalle sovrapposizioni di negativi all’interazione di immagini e testi, dalla fotografia teatralizzata allo stile documentario dell’ultimo periodo. Tre i focus su questo autore che la critica ha battezzato “nuovo metafisico”: mezzo secolo e più di storia della sua terra, dalla nascita dell’Unione Sovietica al collasso dell’utopia comunista e all’attualità di terreno cruciale per gli equilibri politici ed economici mondiali; la carriera, caratterizzata da continue esplorazioni sull’arte del fotografare; infine, il modo in cui il tema Ucraina ha influenzato e si è integrato nel suo progetto artistico. “Il fenomeno che racconto – dice Boris – è postcomunista e postsovietico. La Russia è sempre stata un’area di cataclismi sociali e ha continuato ad esserlo per tutto il ventesimo secolo. Ma la disintegrazione dell’Unione Sovietica dà rappresentazione all’identità contemporanea nella sua frammentazione globale, in un gioco di inclusione-esclusione di necessità e memoria, lacerazioni delle coscienze e del vissuto, ed è la cifra dell’uomo di oggi, dell’Est o meno, macinato dalla storia sin nelle radici”. La pagina più dolente e vitale è la celebre serie “Case History”, la monografia sui senzatetto e gli emarginati nel panorama post Unione Sovietica dell’Ucraina anni Novanta. “E’ un mondo vergognoso popolato da alcune creature che una volta erano esseri umani – scrive Mikhailov – Ora questi esseri viventi sono degradati, orribili, spaventosi. Molte persone mi dicono che hanno notato questi ragazzi solo dopo aver visto le mie foto”.
Fra guerra e pace, urlo e sorriso, spazio e tempo. La fotografia sociale e il diario personale, la condizione di sradicamento e l’urgenza di resilienza sono, invece, al centro della personale (fino al primo febbraio) disegnata dal direttore del Madre, Andrea Viliani, coadiuvato dal giovane bravo critico Eugenio Viola. Una scansione emozionante fatta di ritratti e autoritratti, di crude immagini, ironiche taglienti rappresentazioni, poetiche visioni ed esuberante sensualità. Titolo manifesto è “I am not” (“io non sono io, diversi e uguali io sono tutti gli altri”), mutuato dalla serie censurata in Russia e datata alla prima esposizione del 1992. In scena è lui, performativa scultura vivente con oggetti di uso domestico, pose classiche e nello stesso tempo beffarde. Il corpo nudo diventa la prima forma di ribellione all’autorità e il primo mezzo di ricerca espressiva di surreale straniante liberazione. «Non potevo fotografare per strada – dice Mikhailov – mi sentivo minacciato. Quando facevo una foto avevo sempre paura, il Kgb faceva regolarmente irruzione nel mio studio. Ogni immagine che non fosse una celebrazione incondizionata dell’ideale comunista era considerata controrivoluzionaria; ogni persona con una macchina fotografica in mano era potenzialmente una spia. Durante l’impero sovietico la nudità non esisteva, fotografarla era uno strappo radicale alle norme della fotografia di regime, ma il compito di un artista ai margini è di reagire con estetica onestà contro i pregiudizi». Il cammino nelle sale del terzo piano di palazzo Donnaregina non è cronologico, bensì per segmenti tematici. Si apre con il video The green, la nuova primavera, il pessimismo messo al bando, i verdi brillanti che inneggiano alla speranza. La prima stanza è una sequenza seppiata, quasi cinematografica, di una pausa dal lavoro in fabbrica in una giornata afosa. Innocenza e potere. Operai e operaie in costume o, spesso, senza; una folla promiscua, gioiosa, mentre prende il sole o fa il bagno sul lago – Salt Lake si intitola l’installazione – su cui si affaccia, a contrasto, l’opificio che proprio in quelle acque scarica le scorie della soda che produce. A questo lavoro cult del 1986 segue il cortocircuito di Football del 2000: Boris, con la microcomunità composta da moglie, figli, amici e cane, reinventa il gioco del calcio facendone gioco della vita, un’esistenza in cui bisogna sovvertire le regole per ritrovarne il senso con percorsi alternativi.
Tematica che troviamo anche in un’altra serie cult, Yesterday Sandwich (1972-75) fatta di incastri e sovrapposizioni: un cocktail ibrido di scatti di epoche diverse miscelati con tocchi pittorici a forti cromie. Attraversiamo una galleria di immagini disturbanti quanto profondamente umane nella loro universale e addirittura spirituale testimonianza di dignità personale e collettiva. Un’eco del barocco che a Napoli si respira ovunque, quella Napoli meticcia e cosmopolita dei vicoli e delle chiese, dei poveri e dei migranti, dei “vinti” che l’artista, nelle settimane in cui ha allestito la mostra, ha fotografato ossessivamente.
Eccoci nell’ultima stanza, pensata appositamente per il Madre con un accostamento da brividi: il trittico Autoritratto dai colori cupi collocato sotto una finestra come se fosse inginocchiato davanti ai due santi dipinti da Jusepe de Ribera, il San Paolo Eremita (1638, collezione Alberto Del Genio) e Santa Maria Egiziaca (1651, museo civico Filangieri). Il settantasettenne Boris mostra il suo corpo invecchiato, compianto impudico del suo deformarsi e decadere, della sua macerazione e sofferenza e, contemporaneamente, voglia di trascendenza di fronte alla corruzione terrena. «Presente e futuro, vita e morte – sottolinea Viliani – la disgregazione della carne e il nostro destino di esseri mortali, ma, insieme, la forza della resistenza e il riscatto della redenzione. Non più memento mori ma supremo memento vivere».