Al teatro Eliseo di Roma
Ridere di Cechov
Filippo Dini ha rovesciato il primo classico di Cechov, “Ivanov", e ne ha fatto la tragedia (spesso comica) di un uomo ridicolo. Puntando su una compagnia di ottimi attori, da Sara Bertelà a Gianluca Gobbi
Nikolaj Alekseevic Ivanov è un personaggio comico o tragico? Non indulgeva al riso, Cechov, ma l’effetto del suo primo grande protagonista teatrale (1889) anticipa uno dei grandi temi dell’avanguardia teatrale del Novecento: la tragedia tradizionale diventa impossibile, incomprensibile al pubblico, e dunque consegna lo scettro della catarsi al comico. Ossia: è il comico – pensate agli arlecchini di Picasso – a fungere da capro espiatorio; lui è demandato a prendere le bastonate che altrimenti sarebbero riservate al pubblico. Non so se abbia seguito consapevolmente questo percorso critico, ma questo è ciò che ha espresso Filippo Dini nel suo Ivanov, ora in scena all’Eliseo (produzione Fondazione Teatro Due di Parma e Teatro Stabile di Genova). Se siete a Roma, andatelo a vedere: è uno spettacolo pieno di alti e bassi, di forzature e momenti di pura magia. Insomma, uno spettacolo da non perdere.
Per Cechov, Ivanov è un perdente di successo: un personaggio che piange se stesso con blasfema superficialità. O forse con soverchia profondità. Comunque sia, è uno che ha sposato una ricca ebrea la quale per amore ha rinunciato alla sua fede e alla ricchezza della sua famiglia (forse contro il volere del marito che proprio la ricchezza voleva…). Eppure, dopo cinque anni Ivanov smette d’amare la moglie e, quasi per magia, guarda un po’, si scopre amato dalla giovane figlia di un amico, la più facoltosa ragazza da marito del distretto. E se ne innamora a propria volta: come sbagliare? Sennonché Anna, la moglie di Ivanov, devotissima al marito, è malata di tisi e, umiliata dal tradimento del marito, presto muore: da qui in poi, la vita di Ivanov diventa un inferno di colpe e irragionevolezza, di autocompiacimento e peccato, fino alla tragedia finale, proprio prima del matrimonio con la giovane, innamoratissima e crocerossina Sasha. Si può trarne uno spettacolo comico da questo intreccio? Anche sì, dimostra Filippo Dini. Il quale, protagonista e regista, dissemina la sua messinscena di gag e trovate comiche ogni volta appoggiandole su dei suggerimenti di Cechov (ripeto, il meno comico tra gli autori di ogni tempo): l’ubriachezza di alcuni personaggi, la pedanteria di altri, l’irragionevolezza di altri ancora (e, comunque, sulla bella e naturale vena comica di Gianluca Gobbi, uno degli interpreti). Salvo che spesso tale propensione alla comicità va ben oltre le parole dette dai personaggi, sicché in certe occasioni si ha la spiacevole sensazione che l’idea registica poggi su una tesi preconcetta non sempre suffragata dal copione. Non sempre, appunto: perché poi ci sono momenti magici in cui il gioco riesce perfettamente e altri in cui Dini se ne frega di tutto e spinge benissimo sul pedale drammatico di Cechov. Perché poi Ivanon è uno dei copioni più ricchi di belle battute tra quelli di Cechov.
Malgrado ciò, l’operazione messa in piedi da Dini è sostanzialmente riuscita: perché poggia su un concetto critico forte (il comico si sostituisce al tragico, nel Novecento e ne assume la funzione catartica) e soprattutto si giova di un lavoro scenico molto efficace. Perché gli interpreti dello spettacolo sono tutti affiatatissimi e molto bravi, a cominciare dal protagonista passando per Sara Bertelà (la moglie tisica), Gianluca Gobbi (l’amico, futuro suocero), Valeria Angelozzi (la giovane Sasha) e Fulvio Pepe (il fattore/profittatore di Ivanov). Ma anche gli altri interpreti sono da citare: Nicola Pannelli che fa lo zio nobile di Ivanov, Ilaria Falini che è un’oca tipica alla ricerca del titolo dello zio del protagonista e infine Ivan Zerbinati che è il medico innamorato di Anna. Davvero una bella compagnia.
Il teatro di Filippo Dini è fatto di idee e di energia, di fisicità e talento attoriale, nel segno di un’idea interpretativa anticonvenzionale che determina tutto lo spettacolo. Diciamo che rappresenta la versione seria, attendibile e criticamente sostenuta del teatro altrettanto pop (ma ben altrimenti insulso e irritante) del quasi omonimo Filippo Timi. Semmai, gli pesa l’eccessiva similitudine con lo stile di Valerio Binasco, ossia quel teatro dove l’energia basta a se stessa e comunica emozioni a prescindere dal senso che esprime (o dovrebbe esprimere). Comunque, siamo di fronte a un modo nuovo di intendere il lavoro scenico: nessun timore reverenziale rispetto alla banalità degli effetti pop eppure un buon lavoro analitico alla base. Alla prima dell’Eliseo, il pubblico (in parte di addetti ai lavori) era in delirio; per quanto mi riguarda, alla fine dello spettacolo m’è venuta una gran voglia di rileggere il copione di Cechov. E questo mi sembra, oltre che un dato positivo, un grande merito del traduttore (Danilo Macrì) sulle cui spalle pesa il grosso del lavoro drammaturgico che alla fin fine dà senso a questa operazione.