Every beat of my heart, la poesia
Resistenza forever
Fabrizio Pagni nel monologo in versi “Con le spalle al muro”, raccoglie il testimone di Fenoglio e di altri illustri predecessori e mostra come il mito non cessi mai di agire, ma continui a manifestarsi in forme nuove
C’è una linea ettorica nella letteratura italiana, con radici greche e virgiliane. La scopre uno studioso che guarda caso si chiama Ettore, Ettore Canepa, autore di scritti memorabili in merito. La figura ettorica è il simbolo del resistente, a cui Foscolo, al culmine dei Sepolcri, augura un giorno giustizia, dopo l’oltraggio subito dal suo corpo a opera di Achille, un peccato d’origine dell’Occidente. Maestro di una tradizione di poesia foscolianamente incentrata sulla figura del combattente pietoso, il grande Fenoglio è, nella poesia italiana, il capostipite. Il cimitero dei Partigiani, il mio breve poema in cui dialogo con i giovani resistenti caduti, si inscrive in questa linea di resistenza metafisica. Poi Emilio Zucchi, uno dei poeti italiani significativi di oggi, con l’intensissimo poema Le midolla del male. Poi Elisabetta Sgarbi, la regista che rinnova il film italiano con la creazione del suo cinema neolirico, che ci offre una perla, in questa tradizione con Racconti d’amore.
Fabrizio Pagni (ritratto con Roberto Mussapi da Andrea Angelucci nella foto in basso, ndr), poeta e critico ancor giovane, praticante di un sport di resistenza e sacrificio come il ciclismo (quello vero, non dopato, ma ciò vale per ogni disciplina sportiva) scrive e mette in scena un drammatico monologo in versi, Con le spalle al muro. Storia, luoghi, come nel mio Cimitero di Cuneo e nell’epica di Zucchi, dove la vicenda è retta da un elenco di nomi. Persone che passano dal sacrificio alla gloria, grazie alla loro vita e ai versi di chi ha saputo inchinarvisi. Poesia e teatro si fondono, epica e lirica combaciano. Scandito su tempi teatrali segnati da date, come un calendario in crescendo, manifesta continuità con la linea ettorica tracciata dal grande Fenoglio. Nel nome di un mito, la Resistenza.
Gli illuministi interpretarono riduttivamente, e miopemente il mito, considerandolo come favola fanciullesca, reperto di tempi e uomini primitivi. Eliade, Ries, Goethe, Melville, Beppe Fenoglio, insegnano che il mito è il racconto, continuamente trasmutato, di un evento che ha segnato l’esperienza e il volto del mondo. Racconto in cui memoria e immaginazione si fondono. Oggi, complice la fiacchezza di questi tempi apatici, è in atto una campagna di revisionismo mirante a confondere gli errori, e a volte le nefandezze, di alcuni partigiani, con la giustezza della loro causa e l’onore dell’uomo nel cui nome nacque la Resistenza. Anche il mio amato Tex Willer sa e afferma che spesso i nordisti, con cui combatté, commisero crimini, come accade in ogni guerra, ma i nordisti lottavano per la giustizia, per la liberazione degli schiavi neri, per l’uomo.
Fabrizio Pagni, giovane autore, mostra come il mito non cessi mai di agire, ma si manifesti in forme sempre nuove. Arricchisce quella linea di letteratura e cinema, poesia e teatro che considera la Resistenza un evento storico ma non solo storico, di risposta al male e di rinascita. Come disse Elisabetta Sgarbi presentando una sera il suo film appena citato, «Resistenza è Amore».
Monologo in versi
Ètardi. Ormai sono quasi arrivato
vedo alzarsi delle nuvole di fumo, fumo sinistro e grigio
laggiù in direzione di casa mia
cosa sarà successo? Mio padre, mia madre
e Giovanni, mio fratello,
i tedeschi hanno rastrellato quasi tutto
vitelli, mucche, maiali
tutto quello che gli uomini non sono riusciti a portare in Padule
laggiù, oltre il bosco
ho paura e mi batte forte il cuore
quel fumo maledetto sembra venire da casa mia
dalla casa di mio padre
le persone che incontro per strada
mi guardano con uno strano senso di pietà
e ciò mi stringe il cuore
immagino un segreto nei loro occhi,
che non hanno il coraggio di rivelarmi
qualcuno mi saluta di fretta e se ne va, impaziente
ho il respiro in gola fino a quando intravedo la mia casa
e il fumo, distante almeno trecento metri
sono mio padre e mia madre a venirmi incontro
e a raccontarmi ciò che era successo quel giorno
in Fattoria, il 6 luglio 1944.
Due soldati tedeschi a bordo di una motocarrozzetta
erano diretti verso quella zona “a fare provviste”,
per operare delle requisizioni, come dicevamo noi
e furono sorpresi da un’imboscata
non si è mai saputo chi ebbe l’ardire, quel giorno
di sparare alcuni colpi di fucile verso quei soldati,
partigiani, un gruppo organizzato, o solo qualche sbandato,
all’imbocco di via Colligiana si udirono degli spari
e un soldato tedesco venne ferito.
L’ordine imposto da Kesselring ai soldati della Wehrmacht
e alle SS era quello di uccidere dieci civili
per ogni soldato tedesco assassinato
non importa se uomo, donna o bambino
fu sufficiente il ferimento di quel soldato
per scatenare le azioni di vendetta
e la reazione non si fece attendere,
giunsero rinforzi e iniziò una feroce rappresaglia
una ricerca spietata di tutti gli uomini.
Pinochi Celestino aveva settantasette anni,
cadde riverso in mezzo alla sua aia
con il volto schiacciato contro la pula
messa a seccare al sole di luglio,
le donne furono allontanate con le pistole alle tempie
e non poterono impedire che un lago di sangue
bagnasse la terra di Celestino.
Quando i soldati entrarono nella casa di Angiolo Cecchi
gli uomini erano già fuggiti
misero tutto ciò che trovarono a soqquadro
rubarono quello che per loro aveva valore
e, prima di fuggire, appiccarono il fuoco
ai piani superiori, ai letti, alle camere
le donne non riuscivano a salire le scale
quelle vampe divoravano e incenerivano occhi e ricordi,
con i secchi passati di mano in mano
riuscirono a spegnere quelle fiamme.
Ormai non c’era più niente da bruciare.
Fabrizio Pagni
(Da Con le spalle al muro)