Quarant'anni dopo/1
Pasolini e Gigi Riva
«Riva gioca un calcio in poesia: è un poeta realista». Poi: «Io scendo all’inferno e so cose che non disturbano la pace di altri. Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi». Piccolo alfabeto di memorie pasoliniane
Sia pur con i muscoli facciali tesi, nel suo volto si apriva un sorriso. Quando, appena poteva, Pier Paolo Pasolini giocava a calcio. Sport sul quale, inevitabilmente elucubrava: «Il football è un sistema di segni, cioè un linguaggio. Esso ha tutte le caratteristiche fondamentali del linguaggio per eccellenza, quello che noi ci poniamo subito come termine di confronto, ossia il linguaggio scritto-parlato.Infatti le “parole” del linguaggio del calcio si formano esattamente come le parole del linguaggioscritto-parlato». E inevitabilmente entrava nello specifico, confrontando “fonemi” e “podemi”. Ridacchiava, con la sua voce sottile: «Vogliamo divertirci a definire l’unità minima della lingua del calcio? Ecco: “Un uomo che usa i piedi per calciare un pallone” è tale unità minima: è podema. Non sono né Roland Barthes né Greimas, ma da dilettante, se volessi, potrei scrivere un saggio ben più convincente di questo accenno, sulla lingua del calcio».
E ancora: «Bulgarelli gioca un calcio in prosa: egli è un “prosatore realista”; Riva gioca un calcio in poesia: egli è un “poeta realista”. Corso gioca un calcio in poesia, ma non è un “poeta realista”, è un poeta un po’ maudit, extravagante. Rivera gioca un calcio in prosa: ma la sua è una prosa poetica, da “elzeviro”. Anche Mazzola è un elzevirista, che potrebbe scrivere sul Corriere della Sera: ma è più poeta di Rivera; ogni tanto interrompe la prosa, e inventa lì per lì due versi folgoranti. Si noti bene che tra la prosa e la poesia non faccio distinzione di valore; la mia è una distinzione puramente tecnica». E così via, con la sua tenacia lessicale. Pasolini, nato a Bologna (1922) e non a Casarsa come molti erroneamente dicono, era un tifoso sfegatato della squadra rosso-blu, tanto è vero nella casa materna in Friuli voleva far dipingere la sua stanza – dove chi scrive questa nota è entrato – con i colori del team felsineo. Pier Paolo cominciò a calciare presto, sui prati di Caprara. Anche sei-sette ore di seguito. Era ala destra. Gli amici lo chiamavano “stukas”.
Muscoli tesi, dicevamo. Anche, se non soprattutto, quelli mentali. Basta rileggere l’intervista che concesse a Furio Colombo poche ore prima del suo assassinio. Al giornalista suggerì un titolo: «Siamo tutti in pericolo». Inevitabile fu la domanda sulla sua nostalgia delle “lucciole”, di un mondo antico e solido in fatto di valori morali. Colombo: «E tu, per questo, vorresti tutti pastorelli senza scuola dell’obbligo, ignoranti e felici…?». Risposta: «Detta così sarebbe una stupidaggine. Ma la cosiddetta scuola dell’obbligo fabbrica per forza gladiatori disperati. La massa si fa più grande, come la disperazione, come la rabbia. Mettiamo che io abbia lanciato una boutade (eppure non credo), ditemi voi un’altra cosa. S’intende che rimpiango la rivoluzione pura e diretta della gente oppressa che ha il solo scopo di farsi libera e padrona di se stessa. S’intende che mi immagino che possa ancora venire un momento così nella storia italiana e in quella del mondo. Il meglio di quello che penso potrà anche ispirarmi una delle mie prossime poesie. Ma non quello che so e quello che vedo. Voglio dire, fuori dai denti: io scendo all’inferno e so cose che non disturbano la pace di altri. Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi. È vero che sogna la sua uniforme e la sua giustificazione (qualche volta). Ma è anche vero che la sua voglia, il suo bisogno di dare la sprangata, di aggredire, di uccidere, è forte ed è generale. Non resterà per tanto tempo l’esperienza privata e rischiosa di chi ha, come dire, toccato “la vita violenta”. Non vi illudete. E voi siete, con la scuola, la televisione, la pacatezza dei vostri giornali, voi siete i grandi conservatori di questo ordine orrendo basato sull’idea di possedere e sull’idea di distruggere. Beati voi che siete tutti contenti quando potete mettere su un delitto la sua bella etichetta. A me questa sembra un’altra, delle tante operazioni della cultura di massa. Non potendo impedire che accadano certe cose, si trova pace fabbricando scaffali». Verso la fine dell’intervista, all’imbrunire, Pasolini pronuncia una frase disperata: «È come quando in una città piove e si sono ingorgati i tombini. L’acqua sale, è un’acqua innocente, acqua piovana, non ha né la furia del mare né la cattiveria delle correnti di un fiume. Però, per una ragione qualsiasi non scende ma sale. E ti annega».
Con Dacia Maraini parlò molto della sua infanzia. Immagini molto vivide: «Ricordo i giardini Margherita; una strada di Bologna dove passeggiavo con una mia zia e davanti a lei usavo impuntarmi perché volevo tornare a casa in carrozza. Hanno cercato di convincermi, mi hanno sgridato. Ma ho vinto io. I miei capricci erano violenti e assoluti». Pessimi rapporti con il padre, ufficiale di fanteria («un uomo bellissimo») anche se «nei primi anni della mia vita per me lui è stato più importante di mia madre. Era una presenza rassicurante, forte. Un vero padre affettuoso e protettivo. Poi improvvisamente, quando avevo circa tre anni, è scoppiato il conflitto. Da allora c’è sempre stata una tensione antagonistica, drammatica, tragica fra me e lui». Le cose cambiarono radicalmente dopo i tre anni «quando mia madre stava per partorire (il fratello Guido nacque a Belluno, ndr) ho cominciato a soffrire di bruciore agli occhi. Mio padre mi immobilizzava sul tavolo della cucina, mi apriva l’occhio con le dita e mi versava dentro il collirio. È da quel momento “simbolico” che ho cominciato a non amare più mio padre».