Quindici giorni dopo la strage
Parigi, 28 novembre
I teatri vuoti, i Caffé pieni di giovani che ridono, la Tour Eiffel persa nella nebbia, la rissa a Les Invalides, l'uomo che scrive su whatsapp in arabo e la donna che accompagna due cani: cartolina da una Parigi ferita
Parigi, quindici giorni dopo. I teatri sono vuoti. Non è vero che la vita stia tornando lentamente alla normalità, qui. Qualcosa è cambiato. Alla Comédie ci sono posti liberi anche per stasera. Come all’Odeon, allo Châtelet: non mi era mai successo di vedere una cosa simile. Al Louvre si entra alla spicciolata: nessuna fila, pochi visitatori (rispetto alla norma) e per lo più spaesati. Un passaggio sotto al metal detector e poi giù dentro alla Pyramide: hanno dovuto sistemare in fretta e furia un gabbiotto prefabbricato per i controlli. E hanno chiuso l’uscita in alto verso le Tuileries: si esce direttamente dal Carrousel, in mezzo a file di soldati armati apparentemente distratti. Fuori, in alto, grandi e piccini confezionano selfie con quell’orrenda sbarretta di ferro, ma solo i coreani ridono beati facendosi fotografare con la mano che, in prospettiva, è appoggiata sulla punta della Pyramide. Più in là, Champs-Élisées presidiati intorno al Grand Palais. E anche qui nessuna fila benché ci sia da vedere una mostra molto scenografica e furbetta (Picassomania: poco Picasso e molti seguaci e imitatori, ma c’è un Arlecchino di Hockney che da solo vale la visita). Come al solito, è la cultura a pagare le crisi sociali. Diranno che il superfluo è il primo a essere tagliato. Penso a quando Carlo Borromeo vietò il teatro per salvare Milano dalla peste e si ritrovò i comici dell’arte in coda alle precessioni. Nacque così il teatro moderno: da un divieto. Ma erano altri tempi.
Qui siamo a Parigi. E Parigi è quieta e supponente, come sempre. Ma sembra un po’ addormentata: poche luci, pochi addobbi (sarà la crisi economica?). Agli Invalides qualcuno alza la voce con un gruppo di arabi che canta mentre gli altri ricordano i morti del 13 novembre. Ho avuto paura, il vociare è durato troppo a lungo e poi nessuno rispetta più nessuno. Sembra sempre che debba scoccare una scintilla: non un attentato, ma proprio una rissa, un caos che diventa rissa e poi chissà. La polizia sta lì apposta. Non sono discreti, non possono esserlo così numerosi e così armati (mitra imbracciato, giubbotto antiproiettile addosso): pensi sempre che possa succedere qualcosa. Forse siamo noi che veniamo da fuori a sentire la tensione, ma certo si vedono pochi arabi in giro. Pochi rispetto alla norma: conosco questa città abbastanza bene e non solo in centro per poterlo dire. Può essere una sciocchezza, ma è come se qualcuno si nascondesse. Vedi solo quegli arabi che ostentano i propri segni: ritmi ossessivi dalle autoradio, whatsapp in arabo sul telefonino… Al mercato di rue Saint-Charles stamattina presto c’erano solo massaie parigine e ragazze con le baguette nella borsa. E un ciccione gourmand che mangiava con gli occhi una joue de boeuf immaginandosela forse al tegame con carote e vino rosso. Gli stessi venditori arabi (la maggioranza) inciampavano meno del solito sulle h per farsi più francesi possibile. Del resto, grandi donnone nere vendevano per tre euro una bandierina francese: orgoglio e rabbia altrui potevano pur sempre dare una mano a queste donne in difficoltà.
Parigi è orgogliosa: non ci voleva tutto quel sangue per sottolinearne l’unità! Ma quel che è stato non può essere cancellato: colpiscono le bandierine tricolori che garriscono da tutti (dico proprio tutti tutti) i bus in giro in città. Penso a quanto sarà costato comprare e montare tutte queste bandiere e penso (chissà perché?) alla mia Roma disgraziata che, quando c’è la Festa del cinema, si agghinda con miriadi di stendardi che pubblicizzano l’evento (si vive d’eventi, noi altri) sui lungotevere e sui ponti per salutare i turisti e gli spettatori che non affollano la festa medesima. Quanto saranno costati quegli stendardi provinciali e inutili? Li spenderemmo, noi, gli stessi soldi per comprare tricolori di Stato? Quand’è caduto il centocinquantenario dell’Unità, le bandiere chi voleva esporle se le faceva da sé: nessuno gliele ha comprate. Non siamo francesi, noialtri.
Un amico saggio diceva: se capitasse a Roma quel che è capitato a Parigi, lo Stato si dissolverebbe in un amen. Lo penso anch’io. Purtroppo. Vuoi mettere Alfano a trattare cose serie? Tanto per non fare nomi.
S’è fatta sera. La cima della Tour Eiffel si perde nella nebbia: poca gente intorno. Champ de Mars al buio è terra di conquista di chi porta i cani a passeggio, di due ragazzini neri che giocano a basket ascoltando musica hip hop da una radio e di un gruppo di giovani (!) che si sfidano a bocce. Intorno, le case della Parigi bene: siamo nel Settimo, mica scherzi! Una signora elegante con due piccoli cani di razza conversa con un vecchietto dall’aria molto benestante il cui cane nero è disteso in mezzo alla strada. Nessuno potrà smuovere l’aristocrazia borghese di questi due parigini. Nemmeno centotrenta morti. Purtroppo.
Eppure, questa è Parigi: traversi la strada e sei nel Quindicesimo, un altro mondo. Botteghe e brasserie, fiorai e negozi cinesi. Scruto dentro i bersò dei caffè: sono popolati di ragazzi che chiacchierano, bevono (poco), fumano (molto), ridono, si amano, si guardano, discutono. Sono bei ragazzi, ben vestiti: eleganti. Non perché vestano firmato o con roba di lusso, ma proprio perché sanno come vestirsi, anche con cosette da due soldi, roba da mercatini. Penso all’arabo incazzato di ieri sera che ha aperto la maniglia del metrò con un colpo d’anca con i suoi pantaloni con la cintola sotto al sedere e il cavallo sotto alle ginocchia. Penso alla miriade di italiani con le braccia e le gambe dipinte e penso che ormai il buon gusto è la vera frontiera tra le classi sociali. Quel che una volta era esclusivo (il jeans da gang americane, il tatuaggio) oggi è proprietà esclusiva dei poveracci.
Quanta invidia deve aver mosso la mano degli assassini di quindici giorni fa! Quanta invidia ha prodotto il capitalismo! Più invidia che speranze: questa è la colpa di chi ha governato l’Occidente negli ultimi quarant’anni. Quel tempo, cioè, nel quale il sogno del benessere globale è stato sostituito dall’incubo del terrorismo globale. Cammino per queste strade vuote e silenziose, che ricordo piene, illuminate e rumorose, e penso a Bush, a Thatcher, a Chirac: penso al grande equivoco, al fiele che mi hanno fatto ingoiare tutti quei mentecatti profittatori che professavano l’integralismo del liberismo spacciandolo per l’integralismo della felicità. Vorrei farli passeggiare qui, ora, con i negozi chiusi e le poche persone che camminano in fretta e si voltano con terrore se qualcuno starnutisce. È il prezzo che abbiamo pagato ai privilegi di classi dirigenti corrotte, ignoranti, rapaci. Non bastava fare i filmetti hollywoodiani per denunciare il diavolo della “finanza” che stava divorando il nostro futuro! E non hanno avuto neanche il coraggio di mettere la firma alle stragi: hanno fatto fare il lavoro sporco agli altri. Agli ultimi.
Ripenso a questa mattina, alla mia consueta camminata lungo il corridoio degli italiani al Louvre, ala Denon. Fra’ Angelico, Cimabue, Giotto. E il mio solito mantra, stavolta più amaro: questo sono io, questa è la mia storia. Poi mio padre Paolo Uccello, e Donatello, e Mantegna, e Leonardo, e l’altro mio padre, Paolo Veronese: questo sono io, questa è la mia storia. E Raffaello, e Caravaggio, e Guido Reni, e Annibale Carracci, il suo dottore che io identifico con Amleto…: questo sono io, questa è la mia storia. Ma a che serve, stavolta? Che sicurezza mi dà la mia storia se devo proteggerla con un mitra imbracciato da una ragazzo in tuta mimetica e stivaloni?
Le foto (di Parigi e di Picasso) sono di Henri Cartier-Bresson