“Nel fiume della notte” di Pietro Spirito
La voce del Timavo
Viaggio alla scoperta del fiume carsico, un’entità acquatica dall’enigmatica volontà. Un emozionante incontro a due, un’avventura vissuta dallo scrittore e giornalista del “Piccolo di Trieste” come un’occasione di conoscenza interiore
Un essere animato che sgambetta come un neonato, manda i primi vagiti con la sua acqua borbogliante in un bosco. Chi può essere? Un fiume. E se questo fiume, che tale si fa – crescendo – in Slovenia e poi inizia il suo corso e canta, prendendo velocità, fosse tra i più misteriosi del mondo, avendo due nomi e tre nazionalità? Stiamo parlando del Timavo o Reka, al quale Pietro Spirito ha dedicato un libro bellissimo, suggestivo: Nel fiume della notte (Ediciclo, 144 pagine, 13 euro), di recente pubblicazione. Il fatto è che questo fiume ha una vicenda di per sé affascinante, dal momento che, schivando il destino d’un corso d’acqua comune, che percorre vallate, si offre alla vista degli umani, si fa ammirare nella maestosità del proprio scorrere permanente («L’acqua che tocchi de’ fiumi – ha scritto Leonardo da Vinci – è l’ultima di quella che andò e la prima di quella che viene. Così il tempo presente»), a differenza di tutti i suoi simili il Timavo ha invece fretta di sottrarsi alla vista, si mostra quando gli pare, imponendo la sua riottosa, refrattaria presenza soltanto a chi è disposto a inseguirlo e cercarlo negli abissi oscuri della terra. Il Timavo è un fiume carsico che si interra e sa sparire, misterioso e silenzioso come un animale che non chiede a nessuno di disturbarlo.
Spirito, giornalista del Piccolo di Trieste e scrittore (Le indemoniate di Vergenis, L’antenato sotto il mare, per ricordare due titoli Guanda), rabdomante d’acqua e con la passione per la speleologia (il destino volle che il famoso Walter Maucci, il primo esploratore di quelle acque buie, uomo schivo, se lo fosse trovato in cattedra al liceo, come insegnante di scienze), è la persona adatta a raccontare la storia di questa entità acquatica dotata di una sua enigmatica volontà; pare quasi che ne faccia propria l’ostinazione, pervicacemente deciso sino in fondo ad affrontare persino pericoli, a misurarsi coi rischi di rimanere intrappolato in strettoie cavernose senza luce e senza ossigeno pur di non perdere mai il contatto con il protagonista supremo e vivo del suo libro. Ne segue l’avventura dalle sorgenti alle risorgive sino al mare, partendo dal valico di Pese o Pesek al limite più a nord est d’Italia, ai margini di una marca d’Europa che durante la storia ne ha passate di tutti i colori. Supera l’abisso di Trebiciano (la caverna Lindner), sino al Monte Nevoso in Croazia, nella valle dei Mulini, passando per le voragini di San Canziano, le Doline della Cloce, toccando l’Abisso Rupingrande a Monrupino (Slovenia), la Grotta del Lago (Castello di Duino), e infine Monfalcone, quando il Timavo mescola le sue acque a quelle dell’Isonzo, sino allo sbocco, finalmente, dove l’acqua esce ribollendo, impaziente di gettarsi in mare: e qui le correnti del fiume e quelle del mare, incontrandosi e scontrandosi, bisticciano tra loro ancora una volta quasi fossero creature animate.
Più volte l’autore in questo racconto si ferma ad ascoltare il respiro del fiume: sono i momenti di un incontro a due che fa vibrare corde di emozione profonda, un fronteggiarsi singolare a sensi tesi. Il fiume Timavo respira come un grosso mantice soffiando: se così non fosse, Pietro Spirito non avrebbe potuto trasformare questo viaggio, fortemente voluto, anche in una occasione per assaporare e far sentire al lettore i momenti di muto e sincero colloquio con se stesso, favorito dai luoghi e dalle atmosfere di una ricerca che non è solo di un fenomeno naturale, ma affannosa ricerca di un senso: «quello che cerchiamo, ciò di cui abbiamo bisogno è un luogo protetto dove coltivare i nostri sogni, quali che siano».
Spirito sa bene, con l’anima e la sensibilità di uno scrittore vero, che parlare in prima persona alla lunga potrebbe diventare ripetitivo o noioso se non si è capaci di trasfigurare ciò che si guarda, ciò che si vede, in vibrazione sentimentale. Non a caso pone in exergo la frase di un maestro della letteratura di mare, Joseph Conrad, appropriandosi della sua sublime discrezione: «Nessuno dubiterà che, pensando alla prova suprema di tutta una generazione, io sentissi acutamente la natura modesta e insignificante della mia oscura presenza» (Linea d’ombra).
E il Timavo risponde, gli corrisponde, lo aspetta come un Dio forse anche buono, oppure gioca di tanto in tanto come un demone burlone e irriverente, ma alla fine, nell’ultimo tratto del viaggio che dopo tante fatiche l’autore percorre in canoa per salutarlo, il fiume si fa sentire e resta sulla pagina – indimenticabile – la sua voce: là, sulla linea dell’orizzonte, «il Timavo c’è ancora, c’è sempre, respira da qualche parte nei recessi del golfo… posso ancora sentire la sua voce».