«Cella», pubblicato da Marsilio
La prigione del corpo
Gilda Policastro ha scritto un romanzo sperimentale: un lungo, drammatico monologo interiore nel quale una donna racconta la sua vita da prigioniera degli altri
Cella di Gilda Policastro (Marsilio, 2015, pp. 174, euro 17), terzo romanzo di una trilogia composta dai precedenti Il farmaco e Sotto (usciti per Fandango) è una ricerca tra gli estremi, tra le cadute nell’abisso. È un romanzo sperimentale, scritto in forma di monologo interiore, sempre a un passo dal delirio psicotico, rispetto al quale si tiene saldamente in bilico con una scrittura densa, densissima, poetica ma non eccessivamente lirica. Un libro poetico nel modo in cui la poesia può divenire quotidiano e spaesamento, una focalizzazione interna che affronta e dispiega gli estremi della donna, il dualismo vittima-carnefice, la sindrome di Stoccolma, l’abbandono, l’isteria e la segregazione.
Parlare di trama sarebbe riduttivo, si può dire, certo, tratti di un amore insano, un legame destinato a invischiare un’intera famiglia. Si può citare la Simone De Beauvoir di Una donna spezzata o il Foucault degli studi sulla follia. Parlare di sadomasochismo pure sarebbe riduttivo, di erotismo nero anche. Perché qui il sesso è una condanna, una forma di prigionia dei corpi, dell’inconscio, simile al portato mitico e mistico delle tragedie greche, ma poi forse non c’è qui redenzione, perché Cella, come viene spesso chiamata la protagonista dagli altri personaggi, è prigioniera di tutti: di Giovanni, di Elena, sua figlia, di Dario, il primo figlio di Giovanni, del torpore dei corpi, delle condizioni, dell’epoca che vive, gli anni Ottanta, pieno reflusso, piena caduta dell’ideale nell’ideologico. È prigioniera della mente sua medesima, dell’eterno ritorno dell’uguale, della coazione a ripetere, della depressione, ma è depressione? Dell’eros, ma è eros?
Un legame nato da un abuso non può che dare origine a una serie di abusi, uno più invischiante dell’altro, poiché non si dà desiderio senza soggiogamento, i desideri sono tutti ritorti. La psicoanalisi entra in modo plastico, estetico, interpretativo, ma nulla cura, nulla risalda, nulla può contro la tragedia.
Non è uno sprofondare una volta per tutte, è un tornare. La circolarità della narrazione, fatta di salti temporali, libere associazioni di idee, sovrapposizione di personaggi e ricordi, conferisce al testo un’aura panica e totalizzante, per cui il lettore si ritrova egli stesso chiuso in questa cella, in questa ananke imprescindibile che non si spezza in alcun modo. La famiglia come tomba, non dell’amore ma dell’essere, la famiglia come maledizione. Non si dà scarto tra la parola e la storia, come fosse lo stesso utilizzo del lemma a creare la storia, a srotolarla e riannodarla. A tratti toglie il respiro, conduce al disgusto, del sesso in primo luogo. Il corpo svuotato dal sentimento e consegnato al sentire libidinale puro, così prossimo a thanatos.
Eppure Cella ama, ama profondamente, ama e perdona. È l’eterno femmineo, ferita, offesa, abbandonata. L’urlo della donna, l’ultima donna o forse la prima. Le pulsioni qui descritte sono primitive, senza scampo, involontarie incoscienti e padrone, le passioni, sovrastano ogni spinta alla razionalizzazione. Nessuna interpretazione psicoanalitica libera i protagonisti dalle catene feroci del loro rovinarsi a vicenda, abbandonare e abbandonarsi a una disperazione sussurrata che si nutre di quotidianità fluida, maschere di normalità, cui nessuno crede sul serio. A ogni passo, a ogni pagina, ci si domanda del legame tra la protagonista e Giovanni: come può, come può perdonargli anche questa, come può lasciare che torni? E fa male, fa rabbia, si ha la tentazione di chiudere il libro e scagliarlo lontano. Fa male e fa rabbia, c’è una verità profonda in questa dipendenza distorta, in questo sbranarsi, in questa regressione primitiva: c’è la verità del limite che non è qualitativo ma quantitativo, di quanto dolore si è capaci prima di decomporsi? Di quanta violenza? Capaci in senso passivo: d’accogliere. Questo è Cella: chiusa nella sua capacità immensa di accogliere i fantasmi dell’altro fino a restarne prigioniera.
«Non tutti gli uomini hanno potere, non tutti hanno lo stesso potere. Non è qualcosa che si possa comprendere o definire, che tipo di potere. Non ci sono mai riusciti, gli uomini, a farmelo capire. La prima forma è il possesso. Un uomo può avere un potere e in nome di questo potere, prendersi le cose che vuole, non solo quelle di cui ha bisogno. Anzi, meno ne ha bisogno più le vuole. Il bisogno è una specie diversa dal desiderio: se ho bisogno di qualcosa non la desidero, lavoro per averla. Se ho bisogno di una casa, di una famiglia. Il desiderio è il superfluo, la donna, molte. Il secondo tipo è l’umiliazione. Quando un uomo ti ha in suo potere, e lo sa, ti umilia col tenerti a distanza, col ribadire che può farne a meno. Può fare a meno tanto di te che di tenerti in suo potere. Nemmeno a quella soddisfazione puoi aggrapparti, dovrai essere sostituita. Il terzo è l’abbandono. L’abbandono è la forma più crudele dell’esercizio di un potere: nessuno sa quando avviene e perché, ma c’è un momento in cui le cose finiscono, e anche se può durare a lungo il tempo in cui se ne acquisisce consapevolezza, continuando, nel frattempo, a vivere sotto lo stesso tetto, a condividere le posate, i teli da bagno, le spazzole e qualche volta gli spazzolini (hai l’herpes, hai le carie, hai l’afta), arriva un giorno in cui ci si separa, non lo si decide, come vuole la retorica delle separazioni, insieme, ma è sempre uno dei due per primo, ad andarsene».