L'artista spagnola a Salerno
Il sogno di Amparo
Amparo Sard, quasi una nuova Frida Kahlo, dipinge i suoi incubi con lo stesso rigore filologico con il quale dipingerebbe la realtà. E così lavora sulla percezione di chi guarda
Il mondo chiuso fuori. Un giardino dove nascondersi, clausura forzata contro la paura. Seduta tra gli alberi c’è una giovane donna congelata in una posa da album di famiglia, il vestito della festa indossato per la prima comunione. Il rimando è a Frida Kahlo in abito da sposa, la messa in scena spettrale di una cerimonia del dolore. Ai piedi della ragazza c’è una striscia, una soglia verso l’altrove. Deve scegliere, può rimanere dov’è o come Alice spingersi a oltrepassarla. Secondo quadro: ha fatto il primo passo, è dentro, ma c’è ancora uno scoglio da superare, una nuova stanza da conquistare. La fanciulla poggia le mani sulla parete trasparente, quasi spaventata si specchia nella figura che si materializza, è lei ma nello stesso tempo è altro da lei, la sua coscienza, l’identità di cui riappropriarsi per non naufragare nel “non luogo della mancanza”, per trovare un senso all’esistenza. Terzo quadro, l’ultima camera è abitata da mosche minacciose icona della società che turba, disturba, infastidisce col suo ronzio molesto. Il dado è tratto, sta a lei – noi, perché in fondo quella figura solitaria e inquieta ci rappresenta – trovare il modo di convivere, di non lasciarci corrompere, di trovare il silenzio oltre il rumore.
Amparo Sard con il suo allegorico trittico Self Portrait ci conduce con «leggerezza pensata», per citare Lea Mattarella, tra i curatori della bella recente mostra al Macro di Roma, nel suo universo mutante alla ricerca dell’armonia. Limits – limiti fisici e immaginari, la frontiera verso cui tendiamo – si intitolava la personale dell’artista spagnola, promossa nella Capitale e poi a Berlino dalla gallerista Paola Verrengia che l’ha lanciata, giovanissima, nel panorama internazionale dell’arte contemporanea. Oggi, insieme, ci regalano questo ed altri frammenti di quell’esposizione cult, arricchita da lavori recenti, frutto di una ricerca artistico-esistenziale, auto-analitica e chirurgica, sempre in evoluzione.
Si chiama Cutting the Space (tagliare, penetrare lo spazio dell’anima) la mostra che ammireremo fino al 30 novembre nel suo poetico allestimento all’atelier di via Fieravecchia, a Salerno. In esposizione, sconfinando da un medium all’altro, alcuni disegni, piccoli e grandi, della serie «Sights and Shadows» (visioni e ombre) e il video poetico e scioccante «Hauptpunkt» che, suggerisce il critico d’arte Eugenio Viola, «suscita una riflessione meditativa sul tempo, generando un’unità e una coerenza panteista». È l’ambiente al centro del pensiero di Amparo Sard, quel paradiso della sua Palma de Mallorca aggredito dalla «balearizzazione» e metafora del cemento che sta distruggendo il pianeta. Un magma in piena sconvolge il paesaggio, il verde è cancellato dal fango, tutto si fa grigio, si scompone e si ricompone, nel caos appaiono altre forme, protagonisti altrimenti invisibili, una sorta di bing bang da cui potrebbe nascere un “giardino planetario”, in cui l’uomo può riconciliarsi con una natura non più addomesticata ma che vive in noi, nonostante tutto. Equilibri precari. L’angoscia compare e scompare nell’immaginario della Sard; a situazioni claustrofobiche, spaesanti, si alternano momenti di abbandono di pura contemplazione. Nelle sale algide della Verrengia riconosciamo, dalle carte «forate» con spilli, l’artista che abbiamo apprezzato già dieci anni fa per quel suo «ricamare», con la grazia di pizzi antichi, forme e volumi su superfici immacolate, creando con il suo puntinismo paziente ed ossessivo spazi bidimensionali che trasmutano la realtà portando alla luce sogni e fantasie. Eccoci nuovamente al limite tra desiderio-istinto, bene-male, bellezza-perturbante, indecisione-errore. Amparo Sard, tra estetica gotico-surrealista, astrazione e rappresentazione, ci pone le domande che fa a sé stessa, si mette in gioco (un gioco mentale) in prima persona, l’inconscio che si fa fisico, l’infinito finito, con i suoi autoritratti fragili e feriti che offre in maniera decisa o cela tra quei puntini enigmatici da ricomporre come un puzzle in microstorie, simulacri della memoria del nostro presente incerto.
«Non è il momento di togliere veli o alzare sipari, ma di accettare lo schermo, alla realtà non si può sfuggire, bisogna accettarla. Come Frida, ho sempre dipinto la realtà non i miei sogni. La realtà è questa, avverte la “tessitrice di idee” invitando lo spettatore a farsi protagonista, a dire «io sono questo». La realtà è quella che ognuno vede». La contemporanea Aracne – «dalle dita agilissime nell’aggiornare e sfilacciare la lana», racconta Ovidio per affermare che «tutto può trasformarsi in nuove forme» – continua il suo viaggio esplorativo sul doppio e la trasfigurazione, abbandonando il monocromatismo assoluto con l’ingresso del materico nero del caucciù e del silicone. Lo fa nei due disegni a contrasto «Under the Ground», uno lunare; il rovescio chiaroscurale. Lei, Dafne, si ritrae protetta e/o imprigionata in una sorta di zolla, condivide con montagne e alberi un unico luogo ri-tagliato nello spazio illusorio dell’opera. L’immagine liminare è «Mountain» dove domina il nero che dà fisicità alle ombre. «Talvolta – spiega Amparo Sard – diamo, nella nostra mente, più importanza alle ombre che alla nostra realtà. Stiamo vivendo la vita come un viaggio in treno senza fermate, senza stagioni, dove tutto scorre con un ritmo già prefissato. Dove la cosa importante è prendere una decisione rapida e correggerla, se è sbagliata, altrettanto rapidamente».