Giuseppe Grattacaso
Italia, 13 novembre 2015

Il Muro di Parigi

La mattina dopo in una scuola, in mezzo a ragazzi che vivono l'Europa come una terra aperta, un luogo senza confini. E che non capiscono perché qualcuno voglia costruirci nuove barriere

È la mattina successiva agli attentati del 13 novembre ed ho la prima ora di lezione in una quinta classe. Entro nell’aula e sento gli sguardi dei miei alunni carichi di domande e di timore. Dovrei dire qualcosa a questi ragazzi che hanno quasi tutti poco più 18 anni, diventati maggiorenni da qualche settimana o qualche mese, confortarli o solamente offrire loro una lettura razionale degli avvenimenti. Intanto penso agli amici che vivono a Parigi, a cui ho inviato sms preoccupati, e che mi hanno già risposto rassicurandomi, stanno bene ma sono sotto shock, non sanno più pensare alla loro città con la gioia e la leggerezza di sempre, non hanno parole per spiegare il loro turbamento.

Qualcosa di analogo, un’assenza di parole utili a comprendere o almeno a comporre un quadro dentro il quale disporre gli eventi, si evince dagli occhi e dai movimenti degli studenti di questa quinta liceo e mi induce a credere che essi non sappiano che nome dare alle loro emozioni. Non sanno fin dove possono spingere le reazioni, se devono ritenere che la loro vita futura sarà sconvolta da quanto è successo la sera precedente o che piuttosto, presto, tutto tornerà come prima.

È questa la prima vittoria dei terroristi: siamo costretti in uno stato di confusione, non sappiamo come gestire la commozione, come dare sfogo ai sentimenti che premono, così diversi da quelli vissuti fino ad oggi. Del resto non siamo più abituati alle grandi passioni. Non lo sono i più giovani, che vivono in uno stato di perenne festeggiamento, che ha finito per rendere scontata ogni festa, quotidiana l’esultanza, divenuta perciò un rituale privo di contenuti. Anche il dolore individuale, così come quello collettivo, diventa subito rito, uno stato di sofferenza che è possibile contenere ed esorcizzare attraverso una cerimonia pubblica da realizzare su un social network. Un hashtag e si può ricominciare a pensare al futuro.

I terroristi malati di fanatismo religioso colpiscono proprio lì, dove siamo più vulnerabili, tra i giovani che si divertono – il concerto la partita l’aperitivo la cena con gli amici – dove meno ci aspettiamo che possa arrivare la disperazione. Il loro obiettivo non sono stati i luoghi di culto, non i simboli della cultura, nemmeno le istituzioni, ma i templi della spensieratezza, di un vitalismo che, almeno apparentemente, non conosce dubbi, i luoghi dove l’insicurezza si maschera da divertimento.

Mi siedo e faccio le cose di sempre, mi nascondo dietro i gesti soliti, le operazioni burocratiche, assenti presenti giustificazioni. Non trovo le parole, almeno per il momento, almeno con questi ragazzi che conosco da anni e che ho visto avvicinarsi a passi lenti e incerti all’età matura. Parliamo allora, come da programma, della prima guerra mondiale, dell’immane carneficina di tante vite giovani perpetrata un secolo fa. Cadorna, le trincee, la battaglia della Somme, la mitragliatrice automatica, il fronte interno.

Gli adolescenti che ho davanti sono nati diversi anno dopo la caduta del Muro di Berlino, per loro l’Europa non ha confini. Sono abituati a viaggiare e a considerare lo spostamento dall’una all’altra parte del mondo un’esperienza esaltante, formativa e sempre possibile. Insegno in un liceo linguistico e da qui la Francia, la Germania, l’Inghilterra, la Spagna, sembrano ancora più vicine, fanno parte di una terra unita, che in qualche modo potrà accogliere le vite di chi oggi è ancora in cerca del proprio destino. Alcuni di questi ragazzi hanno già deciso di continuare a studiare le lingue e le letterature straniere, semmai in un’università di un altro Paese, semmai indirizzandosi verso le culture dell’oriente, la Cina, il Giappone, ma anche dei Paesi arabi.

È questa la paura che oggi rende più pesanti i gesti e le parole: che il mondo stia diventando ancora una volta enorme, un posto con troppi ostacoli, uno spazio immenso difficile da percorrere. Oggi sembra che le distanze siano destinate a dilatarsi. Che ci siano nuovamente muri che impediscono i nostri percorsi di uomini, che cercano le proprie strade e vorrebbero conoscersi. L’avanzata del fanatismo nei paesi arabi ha già prodotto lo spostamento di masse di disperati verso occidente e, ai confini orientali dell’Europa, l’innalzamento di barriere e filo spinato. Ora rischiamo di vedere di nuovo crescere la distanza tra un Paese e l’altro, di sentire più profondamente segnate le linee di confine. Oggi per questi adolescenti il futuro sembra meno accogliente. Si allontana, così come si allontanano le altre terre, improvvisamente meno raggiungibili.

Da domani diremo che bisogna reagire, non arrenderci alla paura, continuare a compiere le azioni di sempre: i concerti, l’aperitivo con gli amici, la partita allo stadio, gli scambi culturali, i viaggi d’istruzione all’estero. E’ questo il modo per non dare ragione alla violenza e alla barbarie. Ma oggi non ci crediamo. Gli adolescenti che ho davanti hanno passi più pesanti, volti meno distesi. Da ieri, anche per loro, il mondo è diventato più grande e più triste. Domani metteremo in atto una reazione, anche nelle nostre piccole vite, ci sforzeremo di non sentirci in pericolo e troveremo qualcosa da dire. Oggi non abbiamo le parole. Oggi studiamo la prima guerra mondiale.

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