All’Università di Jendouba
Disordine mediterraneo
In un simposio dedicato al conflitto tra "Ordine e disordine" nel mondo africano, più che le differenze, vengono alla luce le sintonie tra Occidente e universo arabo. Soprattutto in materia di perdita di memoria storica
A Tunisi, passeggiando per la centralissima Avenue Habib Bourguiba – intestata al primo presidente (1957-87) della repubblica nordafricana dopo l’indipendenza dalla Francia e principale teatro delle sommosse che, nel gennaio 2011, determinarono la fuga del suo successore, Zine el-Abdine Ben Ali – la crisi economica che imperversa nel paese, a tutta prima, non si percepisce: caffè, bar e ristoranti pieni di gente, perlopiù all’aperto grazie alla temperatura più che clemente, e – la sera – una miriade di televisori sintonizzati su qualche partita. «Siamo il paese africano più vicino all’Italia, e siamo anche i più italiani tra gli africani», mi dice Farid, un pizzaiolo disoccupato col sogno di venire a lavorare in Italia, sottolineando con orgoglio la libertà dei costumi rispetto ad altri paesi islamici: «Soltanto nella Avenue de Bourguiba ci sono 62 moschee e 115 bar dove si servono alcoolici. Ma purtroppo – aggiunge – non c’è lavoro, la presenza dei turisti è calata vertiginosamente».
E in effetti, a ben vedere, gli stranieri scarseggiano, malgrado i costanti presidi della polizia in ogni zona nevralgica. In seguito ai recenti attentati terroristici i ministeri degli esteri di diversi paesi hanno sconsigliato di recarsi in Tunisia. E se a fine maggio, un mese dopo l’attacco al Museo del Bardo, la conferenza internazionale sulla libertà d’espressione tenutasi a Tunisi ha espresso un gesto forte in risposta alla follia fondamentalista, la strage alla spiaggia di Sousse, in giugno, ha dato, per il momento, il colpo di grazia al turismo: mettendo in ginocchio l’economia nazionale di un paese che nel 2007 il World Economic Forum classificava al primo posto in Africa per competitività economica. A poco è valsa la recente campagna pubblicitaria dal titolo «Would you stop visiting New York, London, Paris» con relative immagini di attacchi terroristici degli ultimi anni, diffusa via facebook dalla RamDam Agency e nata in risposta allo “shock e alla tristezza” causate dalla strage di Sousse. D’altra parte, il processo di democratizzazione intrapreso dalla Tunisia viene riconosciuto a livello internazionale: quest’anno infatti il Premio Nobel per la pace è andato al Quartetto per il Dialogo nazionale, che raggruppa quattro associazioni (il sindacato generale, l’Unione tunisina dell’industria, del commercio e dell’artigianato, la Lega tunisina per i diritti umani e l’Ordine nazionale degli avvocati) distintesi per il contributo alla transizione democratica del paese dopo la Rivoluzione dei Gelsomini.
Per rendersi conto della situazione basta uscire dal centro della Capitale o, ancor di più, recarsi altrove. Ad esempio a Jendouba, una cittadina a circa cinquanta chilometri dal confine algerino. Quando, nel marzo 2014, ho atteso al congresso «Creating Myths as Narratives of Empowerment and Disempowerment» organizzato dall’Istituto Superiore di Scienze umane dell’Università di Jendouba in collaborazione con il Dipartimento di Recherche en Langues et Littératures Européennes dell’Università alsaziana di Mulhouse, mi sono trovato parte di un parterre scientifico impressionante. Per tre giorni una settantina di relatori provenienti da Canada, Inghilterra, Russia, Stati Uniti, Francia, Germania, Svizzera, Irlanda, India, Iran, Algeria, Indonesia, Oman e naturalmente dall’Africa ha discusso di potere, imperialismo, rivoluzione, democrazia e terrore, oltre che delle narrazioni mitiche a ciò connesse: in una prospettiva squisitamente interdisciplinare ispirata ai Literary Studies ma attenta anche alle scienze sociali e alla filosofia (con, dulcis in fundo, un workshop sul mito del Graal ispirato alle teorie di Joseph Campbell). E la sensazione di parlare in un luogo eminentemente deputato al prezioso esercizio della libertà d’espressione, l’Università per l’appunto, era palpabile, in un frangente segnato dalla preoccupazione per l’influenza dei fondamentalisti sulle imminenti elezioni presidenziali (poi conclusesi, nel dicembre 2014, con l’elezione del laico Beji Caid Essebsi – attualmente in carica – grazie a 1,7 milioni di voti al ballottaggio contro i circa 1,3 milioni del presidente ad interim Moncef Marzouki, sostenuto dagli islamici). Ha comprovato l’importanza dell’evento anche la folta presenza di un pubblico – perlopiù studenti e dottorandi – attento e partecipe, con domande puntuali e spesso pungenti (gli atti del congresso sono in fase di pubblicazione: International Conference Proceedings on Creating Myths as Narratives of Empowerment and Disempowerment, ed. by Sihem Arfaoui, Jaqueline Bacha, M. Kamel Igoudjil, Sami Ludwig, Jon Mackley, CreateSpace 2016).
Tutt’altra situazione quest’anno. Il 6 e 7 novembre il medesimo Istituto ha organizzato un congresso intorno al tema «Order and Disorder» che ha visto convenire a Jendouba 32 relatori dei quali 31 africani e uno straniero (il sottoscritto). Non che la qualità ne abbia risentito, di certo però non ho soddisfatto del tutto l’esigenza – fondamentale per un ateneo dinamico e intraprendente nato meno di 15 anni fa – di incrementare le relazioni col mondo accademico internazionale. Quand’anche affrontata da una prospettiva umanistico-letteraria, la dicotomia ordine-disordine rimanda naturalmente – e inevitabilmente – a questioni politiche. È possibile parlare di ordine e della sua controparte, o forse della sua intrinseca, insopprimibile variante – che la si chiami caos, ambiguità o feticismo del soggetto (alias narcisismo) – a partire dalla letteratura? La risposta, affermativa, l’ha data questo congresso esaminando opere di autori quali Gustave Flaubert, John Keats, William Faulkner, Carole Maso, Harper Lee, Eugene O’Neill, Mark Z. Danielewskifino a Salman Rushdie. Senza dimenticare, naturalmente, il Corano.
Tra gli interventi più pungolanti va segnalato «Lost in Quran Translations» di M’hamed Krifa, docente di traduttologia alla Facoltà di Lettere di Kairouan e segretario generale della Tunesian Association for Intellectual and Cultural Renovation. Krifa ha preso spunto dai versi del Corano – ma anche dagli Hadíth, i “Detti del Profeta” – relativi al precetto del digiuno per argomentare che l’interpretazione del testo sacro dell’Islam in materia risulta essere tutt’altro che univoca e ha affermato senza mezzi termini: «Bisogna smettere di tradurre il Corano su base individuale e di considerare la sua traduzione come univoca». Che la “traduzione” stessa del Corano comporti problemi esegetici quasi insuperabili è confermato dalle divergenze fra le traduzioni degli esegeti islamici (un fatto che «può risultare scioccante per chi non ha mai considerato questo problema»). Ciò implica lo spinoso problema dell’intellezione stessa del testo fondamentale dell’Islam. Senza lesinare questioni scomode («È possibile pregare in una lingua diversa da quella del Corano, in traduzione?») Krifa, per primo, suggerisce l’adozione del metodo dell’Appraisal System al Corano in modo da inaugurare una “intralinguistic translation”, ossia una traduzione basata sulla collaborazione interdisciplinare di quattro categorie di esperti: «Storici delle religioni, sociologi, linguisti e traduttori professionisti». In questo modo, la traduttologia conduce direttamente alla questione esegetica, che ne costituisce l’inevitabile controparte. La dimensione ermeneutica definisce lo spazio – e marca la distanza – tra dogma religioso e relativa interpretazione, rimandando così alla questione della psico-logia (e in particolare della psicologia profondo), ossia del discorso sulla e della psiche intorno a quanto la trascende. Perché non basta la religione, anzi forse non è affatto la religione a giustificare l’uso violento che se ne fa, ma il soggetto inflazionato e il gruppo che, in forza del proprio potere, si pone ‘sulle spalle di Dio’. Così viene (fra)inteso l’“ordine” – col manganello o il kalashnikov – ai danni della pluralità, oltre che, va da sé, della libertà, giudicate in termini di “disordine”.
I concetti della psicologia sono ben noti a quella porzione di musulmani cosiddetti “moderati” o semplicemente consapevoli dei rischi dell’esaltazione in nome di Dio. «I fondamentalisti islamici? Megalomani malati di narcisismo» afferma Moez Salaani, docente alla Facoltà di Lettere di Manouba a margine della sua relazione «The Aetiology of Disorder in Africa: Diagnosing Lawlessness and Oligarchy in V. S. Naipaul’s A Bend in the River». «In nome di chi o cosa il cosiddetto fondamentalista – e ce ne sono tanti – apostrofa la gente per strada ad diventare veri musulmani, chi è mai per giudicare e pontificare? Non si può pensare di applicare alla lettera la legge del Corano, ad esempio l’amputazione della mano del ladro, quando un intero sistema politico non dà alla gente la possibilità di evolvere, di studiare. Sono in molti oggi a pensare che il vero Islam, oggi, sia in Europa». Anche la questione del colonialismo, secondo Salaani, va considerata in modo differenziato, poiché è facile dimenticare, ad esempio, l’incremento infrastrutturale apportato al paese durante la dominazione francese. All’osservazione per cui gran parte degli “altri” si augurano che il cosiddetto “Islam moderato” cerchi di comunicare con la porzione di fondamentalisti abbacinati da megalomania e letteralismo, Salaani si mostra sfiduciato: «Con i fondamentalisti il dialogo è impossibile, perché credono di essere in comunicazione diretta con Dio. Ma Dio perdona, loro no. Il problema è psicologico, anzi psicopatologico».
L’ampio range di tematiche trattate a Jendouba ha incluso anche la musica rap e hip hop. Che il soggetto venga ampiamente snobbato dal mondo accademico non preoccupa Souad Halila, docente di History and Cultural Studies all’Università di Tunis El-Manar. In una vivacissima key lecture sull’hip hop nell’Islam Halila ha tratteggiato un panorama assai variegato che muove da una generale situazione di “totally political disenchantment”. Molti degli hiphopper musulmani ambiscono a contrastare gli stereotipi sull’Islam e a ripristinare, in vario modo, il messaggio “originario” del Corano. C’è ad esempio il tunisino Psyco-M convinto che non possa esistere un Islam moderato, Lupe Fiasco che sostiene il rispetto della diversità religiosa ma al contempo accusa l’irrazionalità di ogni credo religioso, e il tunisino El Général, noto anche per le sue critiche a Ben Ali, che se la prende con la decadenza morale e promuove un ritorno alla fede islamica (a lui Felix Wiedemann dell’Università di Bamberg ha dedicato una tesi dal titolo «Der Rapper El Général im Prisma der Identitätsproblematik»; http://norient.com/files/2013/06/Wiedemann_Felix_-_BA-Arbeit_Archivversion.pdf). Sugli hiphopper persino l’interpretazione gender è discorde: per gli uni misogini impenitenti, per altri “male feminists” per via della difesa a spada tratta di mamme, sorelle e consanguinee varie. Vi è infine chi sostiene con forza che l’Islam si basa sull’amore e insegna il rispetto per ogni essere vivente al di là da ogni credo e credenza: lo fa ad esempio il rapper, regista e scrittore di origini congolesi Abd Al Malik, una delle voci e delle teste pensanti più notevoli dell’attuale panorama rap.
Al giorno d’oggi in Tunisia parlare di ordine, quand’anche “nuovo”, dopo i 23 anni di governo di Ben Ali (la cui moglie ha accumulato un patrimonio stimato in cinque miliardi di euro) suscita immancabilmente una sorta d’istintiva perplessità. Eppure sono diversi, soprattutto fuori dall’accademia, a rimpiangere Ben Ali, lamentando l’aumento del carovita e il calo del turismo. Altri, più accortamente, auspicano una riforma dell’istruzione – per quanto rimediare alle gravi carenze strutturali del sistema appare tutt’altro che facile. Da un’insegnante presso una scuola superiore apprendo ad esempio che il cosiddetto ‘colloquio con i genitori’ è cosa facoltativa e ben poco adusa persino nella scuola primaria. Ciò riversa tutta la responsabilità – e lo stress – sul docente, che se pure di sesso femminile non ha certo vita facile. D’altra parte, mi ha stupito la notevole libertà didattica che consente, nei dipartimenti di Cultural Studies, di affrontare le tematiche più disparate: «Insegnare letteratura inglese – secondo Anwar Barouni, docente a Jendouba – significa anche comprenderne lo spirito. Con i miei studenti sto affrontando la questione del movimento LGBT e del relativo dibattito in Europa. Quando parlo, ad esempio, di inseminazione artificiale, normalmente la prima reazione è: “Ma è illegale!” Allora cerco di far loro capire cosa succede in una gran parte del mondo, e da lì nasce una riflessione su un punto di vista differente».
Il tema gender è stato affrontato anche da Nadia Konstantini in un intervento dal titolo «21st Centuy Gender Identities: New Order or Disorder?». Konstantini ha iniziato sgomberando il campo dai malintesi che associano il gender a sesso e sessualità. Quindi, riferendosi a Foucault e Judith Butler ha posto una questione che tanto muove gli animi anche dalle nostre parti: esiste una normatività “naturale” del gender o vi è piuttosto un “disordine” più antico del paradigma binario uomo-donna? Per Konstantini l’imposizione di una norma socio-culturale implica sempre una strategia di potere improntata all’esclusione del diverso; e il paradigma normativo eterosessuale binario non sempre trova avallo nelle categorizzazioni di genere adottate da antiche civiltà. Spaziando dagli Indiani Navaho ai Buginesi nell’isola di Sulawesi (Indonesia) che di gender ne riconoscono addirittura cinque, Konstantini ha sostenuto come le tipologie non eterosessuali vengano sovente considerate una “accomplishment” piuttosto che una “aberration” e il tanto sbandierato ‘naturale’ ordine eteronormativo sia in realtà culturalmente (de)limitato.
Dalle presentazioni sono emerse quindi tanto la fiera consapevolezza che l’«Africa is naturally story-teller» (Asma Dhouioui), quanto la convinzione dell’unicità della Tunisia in seno al continente nero: «Se c’è una caratteristica della Tunisia – ha affermato Zeineb Ayachi, dell’Università di Jendouba presentando i risultati di un esperimento di psicologia sistemica – questa sta nell’uguaglianza tra uomo e donna». Tuttavia la rivoluzione insieme a un nuovo senso di libertà sembra aver arrecato, o esacerbato, effetti psicologici che l’Occidente ben conosce, sottili ed invasivi: maggiore ansietà e narcisismo. «Nell’era postrivoluzionaria la gente non si preoccupa più come prima del giudizio altrui, ma pensa principalmente ad essere se stessa. Questo ha ingenerato un nuovo ordine, e, al contempo, disordine nel sentimento individuale delle persone». In questo terreno, con un occhio rivolto all’Europa e un occhio concentrato sul proprio passato coloniale e precoloniale, si muove la Tunisia di oggi: un paese le cui Università fungono da motore essenziale di riflessione, sviluppo e connessione con il resto del mondo, accademico e non.
«Come mai tanti dicono che si stava meglio quando c’era Ben Ali?» chiedo al tassista che mi porta all’aeroporto. «Non sanno quel che dicono – risponde –. Ben Ali insieme a sua moglie, una donna senza fondo, hanno aspiré l’intera Tunisia. Ti costruisci un grattacielo? Io ne costruisco due. Ti compri un aereo? E io l’aeroporto, e via di questo passo. Purtroppo la gente dimentica in fretta, non ha memoria storica». Oibò, la memoria storica. Se la Tunisia è tanto simile all’Italia, come si sente spesso dire con simpatia, allora, mi vien da dire, lo è anche in questo.
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Una versione di quest’articolo è in fase di pubblicazione in ‘Incanto’, a c. di Caterina Vezzoli, Enkelados. Rivista Mediterranea di Psicologia Analitica, Anno III, Nr. 3, 2015 (www.cipameridionale.it)