Dopo il 13 novembre
Come battere l’Isis
Ci sono ancora molte strade "politiche" per vincere il terrorismo internazionale. Per esempio, smettere di fare affari con la Turchia o andare a genuflettersi in Arabia Saudita. E una strategia condivisa
Gli attentati a Parigi dello scorso 13 novembre hanno ricondotto l’attenzione dei mass media sull’ISIS e il terrorismo islamico. È incredibile come, ogni volta, siano necessari dei morti (europei) per riaprire il dibattito. La minaccia del terrorismo non è un’emergenza e non va affrontata come tale; ormai è un fatto assodato e radicato, che riesce a modellarsi in base ai cambiamenti politici e sociali molto più rapidamente dei governi occidentali.
Abbiamo concentrato la nostra attenzione sugli attacchi a Parigi, tralasciando i morti a Beirut (43 morti e 180 feriti) e le quotidiane uccisioni in Siria. Non abbiamo ancora affrontato la vera questione: l’ISIS uccide soprattutto i musulmani (sciiti). Ed è qui il primo problema da affrontare. Questa guerra non è religiosa, ma una guerra di potere, di controllo del territorio e di interessi economici. Si può interpretare il Corano nel modo più radicale possibile, ma mai si troverà un passo che possa legittimare l’uccisione di fratelli musulmani. Per questo motivo, l’unico modo per l’ISIS di giustificare l’uccisione di musulmani sciiti è quello di identificarli come apostati e, quindi, figurativamente, di distaccarli dal Dar-al-Islam, dalla Casa dell’Islam.
Ricordiamo, altresì, che l’ISIS non esisterebbe senza il sostegno economico da parte di alcuni Stati arabi. Sarebbe interessante capire se alcune dichiarazioni dei rappresentanti istituzionali del mondo occidentale siano ingenuità o menzogne. Gli Usa hanno cercato l’appoggio degli Stati arabi per combattere l’ISIS. Pare che alla richiesta abbiano risposto Giordania, Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi Uniti e Qatar. È palese che per alcuni di questi governi le dichiarazioni siano soltanto d’intento e non abbiano mai fornito una risorsa reale per sconfiggere l’ISIS. Sembra di dover sottolineare l’ovvio dicendo che Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti hanno sempre sostenuto l’ISIS economicamente. Quello che dovrebbe farci riflettere è il motivo per cui ufficialmente non si prendono le distanze da questi governi.
Lo scorso 7 novembre il Presidente del Consiglio Matteo Renzi si è recato in Arabia Saudita per «rendere più forte e vitale l’antica amicizia», come dichiarato dal Ministro degli esteri Paolo Gentiloni. È questo atteggiamento superficiale che dimostra tutta la fragilità politica europea: che credibilità può avere una lotta al terrorismo condotta contro l’ISIS se poi si banchetta allo stesso tavolo dei suoi sostenitori? D’altra parte, l’Egitto che ha bombardato l’ISIS in Libia ma i curdi che quotidianamente combattono per bloccare l’avanzata di al-Baghdadi non vengono sostenuti e aiutati. È chiaro che nel mondo arabo la situazione è complessa, ma non possiamo sempre dimostrarci impreparati appena la politica internazionale necessita di analisi e investigazioni più dettagliate.
In questo momento, ad esempio, il posizionamento della Turchia è evidentemente ambiguo. Erdogan sostiene di essere contro l’ISIS ma, nello stesso tempo, lo finanzia per la sua funzione anticurda. Cosa aspettano Europa e USA a chiedere chiarimenti? Perché non si interrompono i rapporti commerciali fino a quando non ci sarà chiarezza e un’evidente presa di posizione da parte del governo turco?
Non è più accettabile questa superficialità e sorpresa da parte dell’Occidente ogni volta che viene effettuato un atto terroristico. Sono ormai più di quindici anni che siamo consapevoli della minaccia, che si chiami Al Qaeda o ISIS, e non è possibile che non sia stato ancora creato un reparto speciale di intelligence strutturato, ben finanziato, europeo e americano, che si occupi esclusivamente di questa tematica.
Il pericolo non sono gli immigrati musulmani, bensì gli occidentali con cittadinanza americana, europea, canadese, australiana che volontariamente si recano a combattere in Siria al fianco dell’ISIS per poi tornare in patria e continuare la loro guerra. Perché i politici europei temono l’arrivo dei barconi di persone disperate che, tra l’altro, fuggono proprio da zone di guerra, e non comprendono che il problema arriva dall’interno e non dall’esterno?
Ed ecco che arriva la domanda che riecheggia da giorni ovunque: siamo in guerra? Certo che siamo in guerra, ma da quasi quindici anni, non dal 13 novembre scorso. Il problema è capire chi è in guerra contro chi, perché è questa la confusione. L’Europa e il mondo occidentale in generale sono sicuramente in guerra contro i mandanti e gli esecutori degli attentati terroristici, che sono gli stessi che uccidono in Siria, Libano, Iraq ecc. Il mondo arabo sciita è in guerra contro l’ISIS. La Russia sostiene Assad in Siria, ma non si capisce se si posiziona chiaramente contro l’ISIS o semplicemente a favore del governo siriano. Un primo passo potrebbe essere quello di cercare di unificare il fronte anti terrorismo e predisporre delle strategie comuni, cosa che non si è ancora fatta.
Infine, bisogna affermare con chiarezza che non si combatte l’ISIS senza armi, non si combatte una guerra senza una strategia militare. I pozzi petroliferi da cui l’ISIS trae il suo sostentamento economico vanno distrutti, così come i loro depositi di armi e le loro roccaforti. Certo è che senza una visione complessiva e un’intelligence funzionale è più probabile commettere errori che azioni positive. E allora bisogna ripartire da capo, comprendere, analizzare, studiare e agire, perché fino ad ora si è condotta una battaglia in modo totalmente fallimentare e su campi completamente errati.