Al Teatro Vittoria di Roma
Cabaret Emma Dante
“Operetta Burlesca”, il nuovo spettacolo di Emma Dante, racconta il disagio usando sia la chiave comica sia quella tragica, tra piume di struzzo e parrucche colorate. Ma alla fine qualcosa non funziona
L’atmosfera è rarefatta, sommessa, grave. E però allo stesso tempo carnale, fisica, sensuale. Una fila di scarpe femminili in proscenio e bambole gonfiabili vestite di colori sgargianti sul fondo, in penombra, delimitano lo spazio visionario e intimo in cui si consuma una confessione, una presa di coscienza, un viaggio alla scoperta di sé che ancora una volta assume l’identità sessuale a pretesto di un ben più ampio bi-sogno di libertà e amore. Ancora una volta perché questa Operetta burlesca che Emma Dante ha presentato al teatro Vittoria di Roma nei giorni scorsi nell’ambito del RomaEuropa Festival 2015 sembra una summa di scelte stilistiche e contenutistiche già adottate in precedenti lavori quali, esplicitamente, Le pulle e in modo forse meno diretto (ma non per questo meno significativo) Le sorelle Macaluso, Verso Medea, Acquasanta, Mishelle di Sant’Oliva. Ancora una volta perché anche qui uno straordinario personaggio a disagio con il suo stesso corpo maschile, Pietro/Carmine Maringola, si apre al racconto della sua sofferenza giocando quel continuo passaggio dal comico al tragico, e viceversa, che non può che sortire un sovratono grottesco, affermato con la stessa determinazione con cui lo si vorrebbe negare.
È infatti proprio il titolo dello spettacolo a suggerirci l’intenzione da parte della regista palermitana di costruire un cabaret dalle declinazioni persino kitsch (si vedano gli abiti, i boa di piume di struzzo, i colori delle scarpe, i gioielli, le parrucche) dove la musica, la danza e la fisicità esposta a un ripetuto rito di spoliazione/vestizione accompagnano la narrazione pressoché monologante dell’ottimo Maringola, costruendole intorno un clima da operetta buffa che a tratti intercetta la drammaticità del racconto e a tratti invece vi confligge. Sembra cioè che la partitura drammaturgica voglia forzare il racconto ad uscire da sé per mostrarsi, anche nella sua ridicolosità ed eccentricità, spinto all’eccesso di un carnevale delle emozioni dove maschile e femminile si (con)fondono di continuo.
Pietro narra (e si narra) parlando della sua infanzia, dei suoi genitori (incarnati entrambi dalla fisicità prorompente di Francesco Guida, già intenso interprete di quel fortunato Mishelle di Sant’Oliva prodotto nel 2006, qualche anno dopo i capolavori mPalermu, Carnezzeria, Vita mia), della sua ansia di fuga dalla provincia, dell’impossibilità di farsi accettare per come è, del suo amore per Ciro, della sua tragica disillusione sentimentale e umana. Intorno a lui prendono vita le danze della bravissima Viola Carinci, il corpo agitato e fremente di Roberto Galbo: coreografie espressive di un’alta tensione teatrale (le firma Davide Celona) che trovano il loro momento più forte nel violento abbraccio in cui i due ballerini/interpreti combattono nudi e avvinghiati con la violenza acre di due coniugi inferociti e feriti.
Al resto pensano i frequenti travestimenti, un colorismo linguistico facilmente fruibile e ricco di assonanze popolari (la famiglia di Pietro è emigrata vicino Napoli dalla Sicilia), le alternanze continue di luce e buio, chiarezza e penombra, primi piani e allontanamenti sul fondo. E la musica è ovviamente una costante emblematica, un contrappunto senza il quale non consisterebbe la struttura stessa da operetta. Così come ad una tessitura più specificatamente musicale rimandano le frequenti ripetizioni di battute, azioni, parole (elemento questo che attraversa tuttavia l’intera produzione teatrale dell’eclettica regista) poste a ritornello di una storia semplice e vera perché come tante. Silenti e nascoste.
Eppure, in questo raffinato gioco di illusioni e paillettes, qualcosa non funziona. Qualcosa stride, rallenta la tensione. Probabilmente l’innesto della voce narrante di Maringola (sempre capace di una poliedricità interpretativa egregia e basti ricordare il suo ipnotico Acquasanta) con gli altri elementi e registri scenici scivola a tratti nella monotonia, sfilaccia l’espressionismo generale dello spettacolo, e i cinquantacinque minuti del lavoro soffrono, secondo me, di alcuni passaggi meno felici. C’è poi da dire che il tema dell’omosessualità, così spesso affrontato dalla Dante e declinato anche qui secondo due binari paralleli in modo da contrastare certi tabù culturali-familiari e da scatenare, di contro, un sogno camuffato da cinematografico burlesque (in questo vicino pure ad un lavoro come “Battuage” di Vucciria Teatro), risulta troppo prevedibile, troppo abusato.
Motivi per cui lo struggimento che si prova assistendo alla bella prova di tutti gli interpreti rischia a tratti di dilatarsi, di svaporare, di farsi arioso. Di perdere insomma quell’incisiva e tagliente capacità di commuovere che l’artista palermitana ha saputo così tante volte regalarci.