Memorie di un “parassita sociale”
Brodskij contromano
Per lui la poesia è sempre al primo posto, per via del suo potere sconvolgente quanto una macchina che irrompa in una corsia a senso contrario… Guida al pensiero del grande poeta russo, attraverso una raccolta di interviste
«Chiunque consideri la poesia alla stregua di intrattenimento, di “lettura”, commette un crimine antropologico, in prima istanza contro sé stesso». Questa osservazione di Iosif Brodskij è una delle tante perle di cui è disseminato il recente volume intitolato Conversazioni (Adelphi, 320 pagine, 20 euro), curato da Cynthia L. Haven, uscito negli Stati Uniti nel 2002 e ora tradotto da Matteo Campagnoli. Si tratta di una serie di interviste concesse in periodi diversi della sua esistenza da Brodskij che si configurano come uno strumento indispensabile per entrare nell’officina del poeta russo al fine di capire (e carpire) i suoi complessi meccanismi compositivi. Si va dal 1970, due anni prima dell’esilio impostogli dalle autorità sovietiche, al 1995, una manciata di settimane precedenti la morte, avvenuta il 28 gennaio 1996 per un attacco cardiaco nel suo appartamento di Brooklyn.
Come già in altri libri di Brodskij, a cominciare dai resoconti saggistici affidati alle pagine di Fuga da Bisanzio e Il canto del pendolo (traduzione italiana in due volumi dell’originale americano intitolato Less Than One, edito nel 1986), Dolore e ragione e Profilo di Clio (traduzione italiana in due volumi dell’originale americano On Grief and Reason, edito nel 1995), il discorso sui più disparati argomenti – dalla poesia alla politica, dal linguaggio alla religione, dall’esilio alla musica – non rasenta mai la banalità, bensì costituisce una sorta di monumento all’intelligenza, spaziando da un argomento all’altro con una disinvoltura e una sicurezza che non conosce eguali. Brodskij si sofferma preferibilmente intorno alle sue tecniche compositive – come è noto le poesie erano scritte in russo mentre le prose erano composte in inglese ma il poeta aveva stilato anche versi in inglese e si era cimentato nella traduzione di suoi testi dal russo, fino ad anglicizzare il proprio nome in Joseph Brodsky – e alle figure di alcuni autori che furono particolarmente importanti per la sua formazione. Su tutti giganteggia il profilo dell’amato Auden: «Auden occupa molto più spazio nella mia testa, nel mio cuore di qualsiasi altra cosa o persona sulla faccia della terra». Ma ci sono preziose considerazioni sui poeti americani (Frost, Lowell) e russi (Achmatova, Pasternak, Cvetaeva, Mandel’štam) nonché polacchi (Milosz, Herbert, Szymborska), greci (Kavafis), inglesi (Hardy, Eliot), caraibici (Walcott), finanche italiani (Pavese, Montale). Una sorta di summa della poesia internazionale novecentesca, con le sue peculiari esaltazioni e idiosincrasie (come quelle riguardanti la maggior parte dei poeti francesi e spagnoli).
In tale contesto bisogna riconoscere a Brodskij una coerenza e un’indipendenza di giudizio davvero encomiabili. È sintomatico il fatto che, in un’epoca dominata da implicazioni ideologiche molto forti, il poeta russo se ne uscisse con dichiarazioni che non potevano non essere considerate passatiste e che rinviano al discorso tenuto a Stoccolma in occasione del conferimento del Nobel: «Come dicevo, credo che l’estetica sia la madre dell’etica, e che i princìpi etici emergano da quelli estetici, e l’estetica è un qualcosa di tangibile, di più palpabile, in un certo senso, rispetto all’oggetto della tua fede». L’indipendenza di giudizio di Brodskij derivava in parte dalla sua biografia, in quanto esisteva un netto distacco nei confronti della sua stessa esistenza, derivatogli sia dalle sofferenze patite a causa dell’ostracismo del regime sovietico («l’unico al mondo dove si uccide per una poesia» aveva sentenziato Nadezda Mandel’štam) sia dalle successive precarie condizioni di salute che l’avevano a più riprese portato a un passo dalla morte. E, in fondo, proprio questo suo distacco gli faceva assumere posizioni spesso sgradite all’intellighenzia che ragiona per partito preso, distacco che viene compensato dal totale coinvolgimento che l’autore russo aveva nei confronti della poesia e dei suoi autori prediletti.
Riguardo a una domanda sul verso libero, ad esempio, Brodskij risponde di preferire gli schemi metrici tradizionali, in quanto non si tratta di «semplici artifici tecnici, sono formule magiche», «magneti spirituali». A un quesito riguardante il suo mentore Auden, Brodskij risponde: «Non mi capita spesso di leggere qualcosa che mi dia una gioia così intensa come quella che mi dà Auden. È vera gioia, e con gioia non intendo un semplice piacere, perché la gioia è qualcosa di molto oscuro». Sulle aberrazioni della storia osserva: «Già molto tempo fa ho capito che la storia non è altro che la versione dei sopravvissuti. E cioè la versione del carnefice, non della vittima, che di solito viene privata della parola».
La scala dei valori concepita da Brodskij vede sempre al primo posto la poesia, intesa come elemento che può sconvolgere «quanto una macchina che sfreccia contromano in autostrada». In tal senso questo libro di interviste, oltre a rappresentare una guida che riesce a gettare nuova luce sull’opera di poeti particolarmente amati (oltre ai moderni vengono citati spesso la Bibbia, Ovidio, Properzio, Virgilio, Dante, Shakespeare, Donne), ripercorre a più riprese l’esistenza travagliata del poeta russo: dalle reclusioni in carcere e in manicomio al processo-farsa del 1964 in cui viene condannato per «parassitismo sociale» dalle autorità sovietiche ai lavori forzati, fino all’esilio negli Stati Uniti dove intraprende la professione di poet in residence e professore di letteratura e alla successiva consacrazione con l’assegnazione del Nobel, avvenuta nel 1987.
Ma Brodskij sapeva che tale trasporto nei confronti della poesia non si poteva trasmettere con le scuole di scrittura verso le quali era molto scettico: «Non puoi insegnare a nessuno come si scrive una poesia. Puoi però insegnargli i trucchi tecnici. E in più puoi insegnargli a vedere più chiaro. Ma la formula di qualsiasi impresa è che non sono solo i muscoli a fare il lavoro. E non dipende nemmeno dal coraggio. Non è nemmeno una questione di tecnica, cioè della capacità di usare le tue armi. C’è sempre qualcosa in più, un intervento divino. E questo per definizione è impossibile da insegnare».