Al Teatro dell'Opera di Roma
Tutti a Mahagonny!
Mahagonny di Brecht/Weill diretta da John Axelrod con la regìa di Graham Vick è un vero capolavoro: e ci spiega come la crisi del capitalismo sia la crisi dell'Occidente. Un'intuizione fatta con 85 anni di anticipo
Dà una certa soddisfazione vedere che sempre più spesso si torna a Brecht, ai suoi eccessi ideologici, al suo teatro caldo, ultimamente: un autore del quale s’erano già celebrati i funerali (i cui resti erano stati in fretta tumulati fuori dalle mura consacrate della memoria da condividere) è ben vivo oggi, pieno di significati e insegnamenti che molti riescono a cogliere, in scena. A Roma, per esempio, si sono appena visti due spettacoli notevolissimi (la sua riscrittura dell’Edoardo II di Marlowe diretta da Andrea Baracco e La madre messo in scena da Carlo Cerciello) ed ecco che l’Opera propone quello che è forse il prodotto più moderno e visionario della coppia Brecht/Weill: Ascesa e caduta della città di Mahagonny. Ebbene, ci sono ancora tre repliche per assistere a questo capolavoro: se siete a Roma non perdetelo. La produzione è del Teatro dell’Opera cursus Fuortes, la direzione di John Axelrod, la regia di Graham Vick, due artisti di lungo corso operistico.
Mahagonny rappresenta il culmine della collaborazione tra Brecht e Weill: l’opera in tre densi atti (lo spettacolo al Costanzi dura circa tre ore e mezza con due intervalli) racconta di una città-simbolo nella quale tutto è possibile purché si abbia denaro a sufficienza per comprare ciò che serve a soddisfare qualunque proprio bisogno. Ma è proprio la legge del denaro quella che danna la città, portandola alla caduta nel momento in cui si trova a processare Jim Mahoney, uno dei suoi primi clienti e ideologi, caduto in disgrazia proprio perché non aveva più denaro da spendere… Il libretto, infatti, prevede che la comunità di Mahagonny trasformi ogni bene da immateriale in materiale: sesso, allegria, potenza, libertà, giustizia diventano oggetti di trattativa costante. Quando non si risolve tutto con sopruso: perché anche la violenza si compra, a Mahagonny.
Per Bertolt Brecht e Kurt Weill, Mahagonny doveva rappresentare agli occhi del pubblico degli anni Trenta del secolo scorso l’allegoria del capitalismo che stava divorando tutte le illusioni del Novecento. Ebbene, a ottantacinque anni di distanza, la potenza di questo messaggio è intatta. Semmai più forte ancora: lo spettacolo diretto da Graham Vick, infatti, trasforma il capitalismo nell’Occidente tout court. E il fallimento di Mahagonny città debosciata che s’inabissa sotto il peso della propria vacuità diventa il fallimento dell’Occidente, ossia quel disgraziato angolo di mondo nel quale noi altri viviamo e dove tutte le preoccupazioni riguardano solo ed esclusivamente il superfluo. Ossia dove si ritiene che qualunque cosa sia comprabile, o con un pugno di euro o con un pugno in faccia. Tutti i segnali che la regìa dissemina nello spettacolo vanno in questo senso: fino al terzo atto – davvero bellissimo – nel quale i cittadini di Mahagonny sono o vecchi decrepiti seduti su ogni sorta di deambulatore con flebo al seguito oppure giovani insulsi e violenti, che comunicano a gesti e slogan. E alla fine, mentre il potentissimo coro finale di Kurt Weill si irradia in platea, dai palchi del Costanzi calano slogan variamente idioti o incongruenti dipinti sugli stracci a dire che Dio è morto senza neanche comprarsi un buon funerale… (e resta difficile, per l’ha visto, non pensare subito alla kermesse mediatica del Valle occupato). In Mahagonny di Brecht e Weill nessuno ha ragione: le vittime hanno un passato da carnefici e viceversa. Tanto che fa scalpore l’esecuzione finale di Jim Mahoney (colui che in passato aveva teorizzato il primato del piacere e che era finito processato per non aver pagato una consumazione…) vestito di arancione come un martire dell’Isis. Salvo che invece di decapitare la sua ennesima vittima, lo Stato Immorale di Mahagonny carica Jim (come tutte gli altri morti prima di lui) in un cassonetto di plastica. E via!
Avrete capito che questo è uno spettacolo ricco di idee oltre ogni previsione: ma tutto è rigorosamente dentro il perimetro disegnato da Bertolt Brecht e Kurt Weill. L’unico slittamento, l’abbiamo detto, è dal capitalismo all’Occidente: per il resto, nessuna aggiunta. Neanche quando il processo a Jim, per esempio, diventa un format televisivo, con primi piani, spot pubblicitari e applausi finti. Ma, d’altro canto, solo chi è sciocco o chi è in malafede può nascondere a se stesso che la crisi finanziaria ed economica che da sei anni stiamo vivendo è in realtà una profondissima crisi del modello capitalistico e della stessa democrazia che avrebbe dovuto correggere il capitalismo medesimo mitigandone l’intima, inevitabile immoralità. La regìa di Graham Vick coglie perfettamente questo elemento in Brecht e lo riverbera nel nostro millennio liberandolo dai luoghi comuni dell’ideologia perduta. Una grandissimo spettacolo politico, nel senso più nobile del termine, del quale va dato atto a Carlo Fuortes la cui gestione dell’Opera di Roma mostra, spettacolo dopo spettacolo, un progetto globale che probabilmente altri, altrove, non hanno.
E poi c’è Kurt Weill che tutto il discorso di Brecht traduce in musica. Tralasciando i due hit dell’opera (Alabama song e Ognuno dorme nel letto che si è preparato entrambi splendidamente interpretati, qui, da Measha Brueggergosman), tutta la partitura di Kurt Weill è uno schiaffo alla tradizione del belcanto con un continuo ricorso agli interventi di oboe e di percussioni. E con quel sostrato bandistico (dovuto all’impiego costante di strumenti a fiato) che mescola le carte della musica popolare elevandola a grande dignità teatrale. Perché è proprio il senso del teatro a farla da padrone: lo spettacolo, con le sue regole, i suoi dogmi e i suoi ritmi, tiene le redini della situazione, anche lì dove sembra disperdersi per i mille rivoli dell’allegoria (tematica o musicale) o, nel nostro caso, nell’eccesso creativo della regìa di Graham Vick. Ma la potenza seduttiva della musica ha sempre la meglio e il discorso continuamente riprende a filare, fino all’apoteosi finale di quel coro del disimpegno (un inno rovesciato alla deresponsabilizzazione) che chiude l’opera.
Brecht e Weill hanno ancora molto da dire a noi spettatori del terzo millennio: meno male che c’è ancora chi ci propone, arricchite di nuove idee, le loro lezioni di vita, di critica sociale e di utopia politica. Forse, invece di scandagliare la saga dei fratelli Lehman, per capire la fine dell’Occidente bastava leggere Bertolt Brecht e ascoltare Kurt Weill.