Come leggere la crisi islamica/1
Ritirata americana?
John Robert Allen, uomo della Casa Bianca contro lo Stato Islamico, lascia in polemica con la strategia del Pentagono. Ormai i militari Usa e quelli iracheni sono ai ferri corti. E l'Isis ne approfitta
Lo zar Usa della guerra contro Stato Islamico si è dimesso. Il generale dei Marines John Robert Allen, già comandante della missione ISAF in Afghanistan e poi Saceur della Nato per un breve periodo, ha detto basta. «Enough is enough». Non diciamo che se ne sia andato sbattendo la porta, non è nel suo stile, ma ha accusato la Casa Bianca di «micromanagment» nella gestione della guerra alle milizie di al Baghdadi. Traduciamo. In Iraq la condotta Usa è stata imbarazzante. Sono stati venduti, alle ormai povere casse del ministero della Difesa iracheno, ben 12 caccia F-16, riconvertiti, per quanto sia possibile, nel ruolo di attacco al suolo (di cui solo quattro consegnati a metà settembre). Un compito per cui non sono adatti. A detta di uno dei suoi progettisti, Pierre Sprey: «F-16 has any capability for Close air support». Il cosiddetto supporto ravvicinato alle truppe di terra è tra le missioni più importanti per sconfiggere Stato Islamico, specie nelle aree urbane densamente popolate. E richiede il necessario team per il controllo aereo avanzato, che – come avevamo sottolineato già nel nostro reportage dal fronte iracheno, clicca qui per leggerlo – sul terreno non erano stati schierati (i Fac). Nessun supporto tecnico dalla Coalizione.
John Robert Allen (nella foto accanto), nel file Iraq, ha messo questo motivo in testa al cahier de doleance allegato alle proprie dimissioni. Naturalmente assieme ad altro. Come se non bastasse il Pentagono ha sbolognato un centinaio di droni alle forze aeree irachene, fino al giorno prima dotate di quattro turboelica Cessna Caravan (roba da bush pilot). Un numero sproporzionato rispetto alle reali esigenze operative. Ma perché sta succedendo tutto questo? Agli strateghi del Pentagono e agli gnomi della Casa Bianca è andata di traverso la cena? Cosa potrebbe giustificare degli “svarioni” di questa portata? Lo avevamo già notato a giugno in Iraq. C’era un clima di insofferenza tra iracheni e americani. Ma prima c’erano stati segnali a Washington. Tra questi l’evidente gelo tra il presidente Obama e il suo omologo iracheno Hayadar al Abadi al G7 di giugno.
Andiamo con ordine. A livello politico c’è una considerazione di fondo verso la politica irachena: è troppo corrotta. Fiumi di dollari sono letteralmente colati negli ultimi anni. Producendo pochi risultati se non, a detta di molti politici ed analisti Usa, quello di aver gonfiato i conti esteri di molti rais iracheni. Ma se si è arrivati a questo punto gli Usa possono biasimare solo se stessi.
Sul fronte militare la situazione è anche più deteriorata. «Non prendiamo ordini dai generali iracheni»: grosso modo è questo l’umore espresso dagli uomini in divisa Usa in Iraq e al Pentagono. Spesso usando termini più brutali, citando le dubbie competenze belliche di questi ultimi. Nessuno ha voglia di vedere i propri uomini cadere nelle mani di “mozzateste” professionisti per le “distrazioni” di qualcun altro. Un sentimento tra i militari Usa in Iraq, non nato ieri. A maggior ragione ancora più forte tra i veterani dell’Iraq che, in passato, hanno avuto settori delle milizie sciite come avversari. Dopo lo sbandamento dell’esercito iracheno, nell’estate del 2014, a causa della cosiddetta «vendetta di al Maliki», è stato il leader religioso sciita al Sistani a chiamare a raccolta i volontari iracheni nelle Pmu (Popular mobilization unit) Hashd al Shaabi (in arabo). Va sottolineato che nelle Pmu esistono kathibe (brigate) sia cristiane che yazide e che il controllo su queste unità è nelle mani del ministero degli Interni. Ma per quanto abbiamo potuto apprezzare il coraggio di questi ragazzi, pronti a morire in kalashnikov e infradito, e lo sottolineiamo con grande rispetto, siamo ancora all’emergenza. All’addestramento istant coffee, con tutti i problemi che comporta. E il fiato dei Daeesh si sente, eccome. Anche se la determinazione di queste formazioni incoraggia, rispetto alle scene viste a Ramadi: ritirata spagnola.
Le difficoltà nell’addestramento dei ribelli siriani non vedono una situazione irachena tanto migliore. A furia di addestrare nuove leve e poi di epurare per ragioni politiche, nel paese è rimasto poco materiale umano con un minimo di qualità militari, in grado di comprendere l’inglese degli istruttori e di usare le armi. Non parliamo di compiti più complessi come quelli dei già citati Fac. Se a questo aggiungiamo il nervosismo americano, per i motivi già citati, le premesse per un ennesimo disastro ci sono tutte.
Un game changer potrebbe essere il “protagonismo” di Putin in Siria che, almeno a livello mediatico, rischia di creare qualche serio problema di prestigio agli Usa. Anche nel caso dei russi, potrebbe trattarsi di bombardamenti «per approssimazione» senza i team di “acquisitori” sul terreno, che possono solo fare molti danni ai civili e pochi a SI. La furbizia politica del Cremlino è stata completata dal riuscito coinvolgimento della Cina. La portaerei Liaoning, ancorata sulla costa siriana, fa una certa scena, anche se ancora priva dei reparti di volo chiave. E risulta particolarmente fastidiosa agli occhi di Washington. Questa novità potrebbe spingere il Pentagono e la Casa Bianca, ricordiamo in fase di debolezza per la fine del mandato di Obama, a maggiore tolleranza e impegno in Iraq. Ma soprattutto a cambiare approccio. Serve un cambio radicale nella gestione dell’addestramento di militari musulmani. Per non parlare delle lobby dell’industria militare che, con un presidente in uscita, riescono, grazie ad una costante ed attenta pressione su molti elementi del Congresso, a far passare operazioni imbarazzanti per Obama.
Ora in Siria è cominciata una fase molto delicata. Difficilmente i bombardamenti dei Su-25, pur essendo dei validi mezzi di supporto ravvicinato (Cas) riusciranno a produrre effetti rilevanti, senza gli acquisitori obiettivi sul terreno. Si produrrà invece un intasamento aereo sui cieli siriani molto pericoloso. Dove saranno messi a dura prova i nervi di tutti. Alla fine il prezzo più alto lo pagherà come sempre la popolazione civile. Sul piano strategico il discorso è più complesso. Molti si chiedono cosa vogliano gli Usa. Probabilmente andarsene il più presto possibile, lasciando una situazione stabile abbastanza da non far venire in mente strane idee a Israele. Ad oggi sembrerebbe un obiettivo non proprio alla portata. L’urgenza degli Usa sta nella necessità di concentrare le ormai non infinite risorse nel confronto con la Cina. Anche se Putin è stato così gentile da servirgli un test proprio in Siria. Difficilmente Washington si farà scappare una occasione simile per acquisire molti dati sensibili sulla componente aerea cinese in azione sui cieli di Damasco. Tensioni si sommeranno a tensioni e caos. Gli errori si andranno ad aggiungere alla lunga lista del file Siria. I siriani continueranno a morire mentre noi continueremo a discuterne o scriverne. Inutilmente.
Le foto dell’esercito iracheno sono di Pierre Chiartano