Periscopio (globale)
Radiografie del tempo
Alla scoperta di Annie Ernaux, autrice che evita ogni concessione alla facilità della scrittura (e della lettura). E che l'editore Gallimard celebra con un volume intitolato "Scrivere la vita”
“Écrire la vie”, scrivere la vita, sembra un progetto di una difficoltà insuperabile, di quelli che fanno tremare le vene. Quando poi diventa il progetto dell’intera vita di uno scrittore, il titolo con il quale il tuo editore (in questo caso, Gallimard) decide di sintetizzare tutta la tua attività creativa, non puoi sottrarti al confronto, al rischio di aver fallito su tutta la linea. Perché scrivere la vita (e non semplicemente descriverla) è evidentemente impossibile, così com’è impossibile render conto con uno strumento duttile ma tutto sommato incompleto, quali sono le parole che usiamo, della messe di emozioni, sensazioni e sorprese di cui l’esistenza è costellata.
È stata anzitutto coraggiosa, quindi, la scrittrice francese Annie Ernaux, quando ha accettato di riunire con questo titolo, in un volume che supera le mille pagine, la sua opera quasi omnia; come è stato coraggioso l’editore francese a sfidare le facili obiezioni che a questo titolo (quanto mai azzeccato) si potrebbero muovere. E coraggiosa è stata infine una piccola casa editrice nostrana, L’Orma, a tradurre e pubblicare in italiano per ora almeno due tra i testi principali di questa scrittrice: dapprima, l’anno scorso, Il posto (La place),e ora Gli anni (Les années). Due testi diversi tra loro, pubblicati in Francia rispettivamente nel 1983 e nel 2008 e dunque anche cronologicamente distanti, ma accomunati da una stessa volontà di descrivere nei più minuti dettagli la distanza che separa l’io scrivente dal mondo.
Per fare questo la scrittrice si serve di pretesti: nel primo caso il padre, al quale per certi versi è vicina, ma dal quale al tempo stesso si sente distante e si tiene a distanza, in omaggio alle convenzioni che regolavano i rapporti genitori-figli negli anni Cinquanta e Sessanta; nel secondo il flusso disordinato del vivere, dell’esistenza stessa, che ci frastorna con la varietà delle sue immagini, alle quali non sappiamo resistere, intrappolandoci in un vortice centrifugo che ci allontana sempre di più da noi stessi, dal nucleo, da quel che vorremmo essere e di cui alla fine non serbiamo neanche più un’idea astratta.
Nata nel 1940, la scrittrice evoca tutte le tappe della grande storia e della microstoria personale che l’hanno plasmata, dalla liberazione della Francia alla guerra in Algeria, dal ’68 al socialismo al potere con Mitterrand; ne risulta un affresco generale che va ben al di là di una presunta storia della Francia e dell’Europa nella seconda metà del secolo scorso e nei primi anni di questo. Partendo da fatti privati, spesso anche dolorosi, o fastidiosi da ricordare – Ernaux non fa sconti, né a noi né a se stessa –, ci viene offerto il ritratto di un’intera civiltà, il racconto del suo passaggio dalla povertà dignitosa dell’immediato dopoguerra alla liberazione dei costumi, che tante speranze suscita, soprattutto nelle donne, fino al disincanto cinico degli anni che stiamo vivendo. Il furore dell’affastellamento autobiografico di date, fatterelli e fotografie maschera però sempre un’ambiguità e un’incertezza di fondo, come se il problema di far collimare gli accadimenti, che pure si è sicuri di aver vissuto, con la propria vita sia e resti insolubile. Siamo davvero noi a vivere il tempo che viviamo? Cos’è questo “noi”, se non un’entità in perenne cambiamento? E il tempo, che viviamo e condividiamo con gli altri, risulta proprio reale, o non è in fin dei conti che una benevola invenzione della memoria, soprattutto quando, come in questo caso, è ricostruito a posteriori e all’interno di un disegno narrativo?
Ci sarebbero molti passi da citare, ma mi limiterò qui all’incipit, che leggo come una dichiarazione di poetica: “Tutte le immagini scompariranno”. Annie Ernaux, entrata ormai nella cosiddetta terza età, questo lo sa bene, e sa anche perfettamente come quello che possiamo lasciare di noi stessi tanto a chi ci ama, quanto a chi non ci conosce affatto, non sia che la radiografia quanto più precisa e “chirurgica” possibile dei tempi che abbiamo vissuto. Dal punto di vista tecnico, la scrittrice adotta, per vincere la sfida, una dilatazione dell’impersonale e dell’imperfetto, riuscendo così a coinvolgere il lettore e a farlo sentire parte di un movimento collettivo o di un essere sociale, ma al tempo stesso rimarcando quanto ben poco della nostra vita sia davvero “nostro” e come la si attraversi senza che le cose e gli altri ci appartengano davvero. Ma la felicità consiste spesso nel credere il contrario.
Un auspicio, per finire: che lo stesso piccolo e valente editore, o uno dei mostri sonnolenti della (più) grande editoria, si ricordi ancora della Ernaux e almeno del dittico composto da Une femme e Je ne suis pas sortie de ma nuit, due brevi testi (sotto forma il primo di narrazione, il secondo di diario) dedicati entrambi alla morte della madre, affetta dal morbo di Alzheimer, e alla nostra incapacità di adulti di lottare contro i mali di chi ci è caro. « Horreur d’imaginer un livre sur elle. La littérature ne peut rien », commenta a un certo punto; eppure scrive, racconta per filo e per segno, nei dettagli, non solo l’infermità, ma anche e soprattutto la futilità della nostra presenza accanto al malato. Altri due piccoli, dolenti capolavori, da pubblicare se possibile insieme, in un unico volume che non dovrebbe mancare nella nostra biblioteca.