Fabrizio Coscia
Un bel libro di Adelphi

Proust nel Gulag

L'arte può salvarci la vita, anche nelle situazioni più drammatiche. Come dimostra «Proust a Grjazovec» che riunisce le "lezioni" di Józef Czapski, recluso in un Gulag a 40 gradi sotto zero

Qualche anno fa uscì un agile e ironico libretto di Alain de Botton, intitolato Come Proust può cambiarvi la vita, dove l’opera del grande scrittore francese veniva disinvoltamente utilizzata come un pratico vademecum sull’arte della vita. Un titolo che sarebbe stato perfetto, nel suo significato à la lettre, anche per il Proust a Grjazovec di Józef Czapski (Adelphi, pagg. 125, euro 18, nell’ottima traduzione dal francese di Giuseppe Girimonti Greco, che è anche un raffinato lettore proustiano). Il testo è la trascrizione sotto dettatura di una serie di conferenze sulla Recherche che il pittore e critico d’arte polacco tenne, nell’inverno tra il 1940 e il 1941, a un manipolo di suoi compagni di prigionia, nel gulag di Grjazovec (a 400 km a nord di Mosca), per sopravvivere all’abbrutimento e agli stenti attingendo a «quell’universo di preziose scoperte psicologiche e di sublime bellezza letteraria».

Józef Czapski1Tra i pochi scampati al massacro di Katyn, Czapski e compagni, rinchiusi in un ex monastero distrutto e adibito a campo sovietico, si riunivano stremati dalla stanchezza dopo una giornata di lavoro forzato a 40° sotto lo zero, e si immergevano nel mondo lontano dei salotti aristocratici di Parigi, nella passione amorosa di Swann, nella memoria involontaria innescata da una madeleine inzuppata nel tè, nell’infinita galleria di personaggi che animano il più grande capolavoro letterario del XX secolo. Czapski racconta non solo la genesi, la trama e la forma dell’opera proustiana, ma ne descrive scene intere, rivelando dettagli illuminanti (come le scarpette della duchessa di Guermantes, o i libri di Bergotte nelle vetrine dopo la morte dello scrittore) e si sofferma su alcuni aspetti della vita di Proust, sulla sua malattia, sul rapporto con la madre, sulla clausura forzata per dedicarsi totalmente alla scrittura dopo anni di vita mondana. Il libro si presta dunque a esser letto ancora oggi come un’utilissima introduzione a Proust per coloro che non hanno mai avuto l’ardire di affrontare la Recherche, magari scoraggiati dalla imponente mole dell’opera, considerato il taglio divulgativo scelto da Czapski, dal momento che l’intellettuale polacco aveva di fronte un gruppo di ufficiali a digiuno di letteratura francese. E se per i cultori di Proust questa lettura aggiungerà poco o nulla alla loro conoscenza, non mancherà però di incuriosirli con i frequenti lapsus mnestici in cui incorre Czapski quando ricostruisce scene e passaggi della «Recherche» alterandone alcuni aspetti o inventandone del tutto (come la scena della morte della nonna del Narratore, che nel libro si svolge in maniera diversa da come viene qui riportata).

proust di Józef CzapskiL’aspetto più commovente di queste conferenze, infatti, oltre al significato vitale che acquista la letteratura in un contesto di morte e di deprivazione come quello di un Gulag, è il fatto che Czapski le tenga senza la possibilità di consultare alcun libro. Lo sforzo mnemonico diventa così ancora di salvezza, risorsa di vita e allo stesso tempo testimonianza appassionata di amore per la cultura.

Come Primo Levi che nell’inferno di Auschwitz cerca di aggrapparsi al ricordo dei versi di Dante del canto di Ulisse per sentirsi ancora un essere umano, anche Czapski s’appiglia alle citazioni a memoria per dimostrare d’essere ancora capace di pensare e di «recepire stimoli mentali». Di lì a pochi anni un altro intellettuale, il filologo ebreo tedesco Erich Auerbach, in esilio a Istanbul per sfuggire alle persecuzioni naziste, scriverà il suo monumentale saggio Mimesis senza una biblioteca ben fornita da consultare, affidandosi ai ricordi delle sue letture, ignaro che anche un importante critico d’arte polacco aveva costruito con una brillante rievocazione della Recherche in un Gulag sovietico un’analoga arca della salvezza dal diluvio universale della disumanità, dimostrando come Proust – e l’arte in generale – può salvarci la vita.

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