«Un pallido sole che scotta»
Perdersi al Sud
Da Africo a Napoli, Francesco de Core nel suo nuovo libro compie un viaggio letterario, crudo ed emozionale, nel cuore di un meridione che «è un nodo non risolto»
Due foto affiancate, cristallizzate nel bianco e nero, sfocate al pari dei ricordi sbiaditi. Il primo scatto isola un Pasolini scavato, gli occhiali da sole che tentano di occultare la stanchezza fisica e morale. L’altro mostra Antonio de Core, capelli scarmigliati e gesti concitati, mentre abbozza la sagoma familiare del duomo di Casertavecchia. Due intellettuali innamorati della bellezza: il regista “che utilizza la sua disperata vitalità” per salvare quel poco di un mondo che gli sfugge inesorabilmente e il pittore delle piccole cose di cui spesso non ci si accorge e che ferma sulla tela come urlo di r(i)esistenza. Forse si sono incrociati tra le pietre del borgo medievale che ha fatto da quinta al Decameron in quegli anni Settanta che preannunciavano l’Apocalisse dei valori. Forse si sono annusati, riconosciuti. il poeta e il padre, entrambi amati, convivono nella “piccola geografia” che mappa l’anima di Francesco de Core; sono le icone del museo di figure che accompagnano il suo viaggio nel cuore del Sud a bordo di una macchina del tempo sospesa tra ricordi e sogni, rabbia, dolore, amarezza e speranza. E che ora il giornalista e scrittore casertano, caporedattore del Mattino, ci rivela nelle poetiche cronache di Un pallido sole che scotta (edizioni Spartaco, 169 pagine, 10 euro), titolo preso a prestito come pudico omaggio da un verso di Attilio Bertolucci.
Quasi duecento pagine scorrono come un fiume in piena in questo libro-gemma, il diario, crudo ed emozionale, di un meridione che “è un nodo non risolto”. “Ho fatto un viaggio meditato – spiega de Core nell’introduzione – in luoghi talvolta poco noti ma fortemente simbolici, seguendo un itinerario orientato da scrittori intellettuali viaggiatori poeti che hanno cercato di capire, leggere, guardare il Mezzogiorno oltre gli stereotipi e i numeri”. Il suo è “un vagabondaggio lento intrapreso per amore e curiosità” in una terra-purgatorio senza santi né dannati, dove tutto è indistinto nell’incanto di cielomare che ti illude con la sua parvenza di paradiso. È un reportage, dalla Calabria alla Campania, di posti e di persone che hanno vissuto quei posti, un ritornare sui loro passi col terzo occhio del cronista per raccontarli in prima persona, quasi autobiografia tenera e feroce, una ballata che ha l’alchimia del verso cantato. Sbagliato definirlo “saggio”, come è stato classificato, “starebbe molto meglio negli scaffali delle librerie alla voce letteratura di viaggio”, avverte Roberto Saviano. L’eco è il Vado a vedere se di là è meglio di Francesco M. Cataluccio. Come lui, Francesco de Core, che lo ha nell’indice di autori cari, ha cercato la presenza dei “giusti”. Capitolo per capitolo, nella descrizione di quella che era la culla del Mediterraneo con il suo crogiolo di culture stratificate di greci, arabi e normanni, riaffiorano, lì dove di mitico c’è ormai poco o nulla, i suoi miti.
Africo. Tra la profondità dello Ionio e l’oscura notte dell’Aspromonte. Inquieta con le ferite del passato e le brutture del presente. Africo Vecchio, la natura ha infierito con terremoti e alluvioni, i mafiosi lo hanno corrotto, i politici lo hanno sbranato. Umberto Zanotti Bianco voleva cambiare le cose, credeva nell’umanità di uno Stato in prima linea contro il degrado. Oggi quell’alito di speranza è muta rassegnazione, i discorsi sulla questione meridionale carta straccia. Africo Nuovo, terra di nessuno. Il giornalista lombardo Corrado Stajano vi arriva nel 1979 per raccontare le dinamiche del potere tra politica, chiesa e ‘ndrangheta. Il bubbone è diventato tumore, penetrando nel resto del Paese e diffondendosi in Europa, in America, i clan, le modalità tribali rivestite di giacca e cravatta, occupano le nuove piazze del crimine.
Stilo. Sapore d’Oriente nelle cinque cupolette della Cattolica, la chiesa bizantina, “una bomboniera sotto il monte Consolino”, sfregiata dall’abusivismo e dal cattivo gusto che la circondano. Vi è nato Tommaso Campanella, al pensatore della “Città del Sole” è dedicato un monumento da sterile santino. “Stilo reca i segni di uno splendore estinto”, ha scritto Guido Piovene nel 1957; ieri come oggi: palazzi e chiese in rovina, deturpate dalle ricostruzioni, vandalizzate. Curve costellate di rifiuti, il silenzio di Serra San Bruno. Francesco de Core pellegrino sulle orme di Leonardo Sciascia, il bagaglio di storie di uomini venuti qui con l’illusione di lasciarsi alle spalle i rumori del mondo. L’ultima pace. Forse la trovarono il soldato americano che liberò l’atomica su Hiroshima, Ettore Majorana, il genio della fisica che intuì gli effetti del nucleare, e Federico Caffè, l’economista misteriosamente scomparso. Non ci sono prove della loro voluta clausura. Perché i nomi e le glorie vengono inghiottiti nella Certosa fondata da San Bruno in cui “qualcuno – dice il priore – si è forse salvato dal tradire la vita tradendo la cospirazione contro la vita”. La cospirazione, la salvezza e il tradimento, sono le chiavi, riflette de Core, per comprendere Sciascia, per penetrare le sue angosce nell’irrequieta corsa contro le apparenze e i simboli. Una sosta a Fago del Soldato, “odore di briganti e tracce di lupi”. È la Nave della Sila, “il bastimento dell’emigrazione”. Camigliatello, patria di minatori, sudore e sangue perché “di lavoro si muore, sotto terra”. San Giovanni in Fiore, “capitale contadina e profetica” per Carlo Levi; ora è una distesa scomposta di cemento, “perché la Calabria non ha saputo (o voluto) salvare la bellezza, né la bellezza salverà la Calabria”.
Capo Vaticano. L’affaccio sull’orizzonte infiammato dal tramonto, i fari dello Stretto, le Eolie con lo Stromboli, “un gigante nel rimbalzo della visione” nell’amarcord di Enzo Siciliano. È il mare sognato dall’”irregolare” Giuseppe Berto, l’antidoto al male oscuro che si scioglieva in questo lembo di paradiso lontano dal chiacchiericcio velenoso dei salotti letterari romani. Nel piacere della lentezza lo scrittore neorealista mette su, mattone dopo l’altro, il rifugio che è innanzitutto un ritorno all’innocenza. Villa Berto oggi è assediata dal kitsch del turismo di consumo. Lui lo aveva profetizzato nel ‘74: “Per cemento e per magia (ma meglio si potrebbe dire imbrogli) è finito l’incanto di tante baie e tanti litorali calabresi”. L’esempio è Tropea, disgusta la vista di presenze chiassose nel carosello di ombrelloni sardine, insegne alla Las Vegas, casermette condominiali sorte come funghi col marchio dell’illegalità consentita, liquami che assassinano il mare.
Cilento. La seduzione della costa selvaggia e dei borghi interni scampati allo tsunami degli alveari per famiglie aggrovigliati sul litorale. L’ambiguità della terra delle sirene sospesa tra mito e idiozia: paesi rovinati dall’oscenità della postmodernità, altri irraggiungibili e forse per questo ancora integri. Sanza, Caselle in Pittari. È il Cilento di Francesco de Core, delle estati nella quiete di Scario, di Pisacane eroe incompreso, di Ungaretti di fronte alla mole antracite del Bulgheria. Agropoli. Il progresso ha un volto ancora umano nelle viuzze che portano al castello da cui si affacciava il torinese Franco Antonicelli, arrestato nel ‘35 e qui confinato. Quell’autunno tra la “buona gente” e lo “stupore della natura” lo racconterà ne “Il soldato di Lambessa”. Paestum. Isola sul nastro di asfalto che, attraversando la casba pacchiana di caseifici e matrimonifici, da Battipaglia conduce a Salerno: la dignità dei templi nella rosata luce che precede il crepuscolo provoca il “felice stordimento” che avvinse Camus trasportandolo “a due dita dal piangere”.
Salerno. La città borghese e ipocrita, nella memoria del suo figlio vagabondo, Alfonso Gatto, fa rima con eterno. L’eternità dei colori mediterranei che il poeta, “la gioia di un canto bambino e la ribellione dei resistenti”, trasfonderà nei versi e nei quadri. Salerno, l’orizzonte limitato da cui fuggire; il conforto del ritorno tra le pareti sicure della “sua” galleria, il Catalogo di Lelio Schiavone. Salerno ingrata, i portoni chiusi dell’oblio, riaperti troppo tardi solo per la tenacia della Fondazione presieduta da Filippo Trotta. Stessi occhi azzurro lucente del nonno, ha chiamato gli artisti di strada che hanno ricoperto i muri del centro storico di colori e parole; sui gradoni anonimi di via Velia Alice Pasquini ha riprodotto Gatto nel gesto rito della sigaretta accesa, il vecchio amico Mario Carotenuto lo ha dipinto tra le sagome di legno del “presepe degli ultimi” nella cattedrale.
Marcianise. I ragazzi dell’Excelsior, quelli di Brillantino. Qui si forma prima l’uomo, poi l’atleta, infine il pugile. L’idolo è Tatanka, Clemente Russo, campione del mondo e due argenti olimpici, un simbolo anche per quello che di lui ha scritto Saviano che su questo ring di provincia placa l’ansia che strozza e fa a cazzotti per ritrovare sé stesso. Nella palestra la camorra non entra, le regole del pugilato sono incompatibili con quelle dei clan, “perché la forza non basta, serve un’altra forma di integrità a sostenerti”.
Napoli. La “Città Corpo obesa, inafferrabile, con un cuore sfibrato nel buco nero della non storia. Il sinistro inganno di sole mare canzoni mentre la notte cala inesorabile ed “il futuro è un muro su cui sbattere la testa”. Uno scatto di libertà e d’orgoglio e subito il ritorno al buio. Amore odio. Chi non scappa ci muore dentro, come Renato Caccioppoli e Luigi Incoronato. Elena Ferrante, al contrario, fugge, non crede più nel trucco delle rinascenze. Napoli è la Malacqua di Nicola Pugliese, cattiva e respingente; la Città di mare con abitanti di Luigi Compagnone, che mette a nudo, con satira sferzante, le maschere “della più vasta gamma del peggior sentire umano”; la metropoli gotica e oscura di Gustaw Herling; la penosa Eternapoli di Giuseppe Montesano, “immaginifico parco giochi da vendere agli stranieri e fogna che vomita morti e putrescenze”. Napoli, “ultima stazione del mio viaggio tormentato, segnato da un pessimismo acceso che non accetta la realtà così com’è, e la morde, l’affronta – conclude Francesco de Core. E senza mai riuscire a indicare con precisione dove dimorano realtà e irrealtà, diluendole nel suo mare. Sempre che reale e irreale, nella Città Corpo, siano veramente differenti”.