Fino a febbraio a Palazzo Ducale
Modello Laguna
A Venezia, una mostra tanto ricca quanto sorprendente analizza la storia della gestione della Laguna e delle sue acque: dagli studi della Serenissima agli errori del MOSE
Acqua e cibo a Venezia. Storie della Laguna e della Città è la mostra aperta in Palazzo Ducale a Venezia fino al 14 febbraio 2016. È curata da Donatella Calabi con il contributo scientifico di Gabriella Belli (http://palazzoducale.visitmuve.it/it/mostre/mostre-in-corso/mostra-acqua-e-cibo/2015/04/7052/storie-della-laguna-e-della-citta/). È una mostra sorprendente, in cui si intrecciano diversi piani di narrazione. Il curioso troverà risposta a molti quesiti sulla trasformazione della laguna, dalle prime rilevazioni di 500 anni fa ai modelli matematici di oggi. Ma incontrerà nuovi quesiti, che gli studiosi di idraulica pongono, in una prospettiva storica, a chi si occupa della realizzazione e della gestione futura del MOSE, il sistema delle paratoie mobili. Domande esplicitate il 16 ottobre, nell’ambito della mostra, quando si è svolto il seminario La laguna si trasforma. Dalla cartografia storica ai modelli matematici, promosso da IUAV, Università di Padova e EPFL di Losanna.
Luigi D’Alpaos ha affrontato i temi della fase delicata dell’ultimazione delle opere alle bocche di porto di Venezia, indicando come la loro messa in opera comporti modificazioni delle dinamiche idrauliche, tanto rilevanti da richiedere di attivarle assai più di frequente di quanto previsto. E questa maggiore frequenza comporta che la scelta di portare il porto e le grandi navi fuori dalla Laguna non è rinviabile. Mentre oggi appaiono e scompaiono progetti insostenibili che fanno girovagare le grandi navi ora per un verso ora per un altro, in un valzer nelle acque della Laguna condotto da improbabili pesci fuor d’acqua. Andrea Rinaldo, dell’EPFL di Losanna, ha diretto un gruppo di ricercatori che hanno simulato la portata d’acqua dei canali della Laguna in base ai rilievi cartografici di 2 e di 3 secoli fa, scoprendo che la Laguna era meno esposta ai rischi acqua alta perché il movimento delle onde non poteva erodere i fondali e barene. Oggi, invece, canali e barene sprofondano, perché i sedimenti non hanno il tempo di posarsi e di ricostruire ciò che l’acqua con il suo movimento demolisce: e questi effetti aumentano velocità e portata delle maree e quindi le frequenze delle acque alte (http://palazzoducale.visitmuve.it/it/mostre/mostre-in-corso/mostra-acqua-e-cibo/2015/10/16568/seminario-di-studi/).
La Mostra è incentrata sull’artefatto, come segno di quella formidabile interazione uomo-natura che caratterizza l’evoluzione della morfologia della Laguna. L’intervento umano può essere cieco, ossia guardare al breve periodo e agli interessi immediati senza considerare gli equilibri che si spezzano, le dinamiche che vanno fuori controllo, i rischi – in una parola – che investono l’ambiente lagunare e la sua sopravvivenza, che è la sopravvivenza di Venezia. Oppure l’intervento umano può essere accorto, attento alla salvaguardia dell’ambiente, della salute pubblica, dello sviluppo. Così fu, hanno detto i relatori, quando Cristoforo Sabbadino, primo Consultore della Repubblica Serenissima e accurato studioso delle acque della Laguna, elaborò il Piano di sviluppo e sistemazione idraulica di Venezia, che costituì, dalla metà del Cinquecento, il fondamento delle politiche di salvaguardia della Laguna per tre secoli.
Il Seminario ha offerto un approfondimento straordinariamente interessante dei contenuti della Mostra, aiutando a capire i nessi tra politiche di intervento della Repubblica, volte a mantenere l’unicità della condizione di Venezia, unica città senza mura, perché protetta dalla acque. Eppure, la città è «in aqua e non ha aqua» come disse Marin Sanudo, poiché doveva procurarsi l’acqua dolce che non aveva con il sistema dei pozzi-cisterne e con le barche dai fiumi, con lavoro continuo e con opere costantemente rinnovate e manutenute. Doveva “coltivare” il sale, tanto prezioso da avere una sua propria magistratura che era quasi un ministero dei lavori pubblici, perché con il profitto del sale venivano finanziate opere e lavori, ed era un numerario, ossia una quasi-moneta per regolare gli scambi. Doveva regolare le attività economiche e commerciali, per evitare rischi alla salute pubblica, come quando spostò nelle isole della Laguna sia gli ospedali e i lazzaretti, sia le attività più pericolose, come la lavorazione del vetro. Doveva coltivare orti e vigne in un intreccio tra città e campagna, tra natura e artefatto, che gli strumenti raccontano e la Repubblica regola: come fa con l’attività della pesca in Laguna, per evitare abusi. Straordinarie le pagine d’archivio esposte, nella quali sono inseriti e incollati campioni di reti troppo fini, e quindi vietate, perché incapaci di lasciar passare il novellame e quindi destinate a porre a repentaglio la risorsa comune della Laguna. E questi «corpi del reato» venivano allegati agli atti di condanna dei pescatori fraudolenti.
Straordinario anche il contrasto tra la severità della Serenissima e il lassismo delle amministrazioni moderne, che chiudono due occhi nei confronti di ogni abusivismo. La mostra esibisce, su questi temi già di per sé originali, un uso avanzato e intelligente delle tecnologie di rendering e di animazione tridimensionali, che consentono di rivedere ambienti e luoghi, processi lavorativi e intrattenimenti. Un esempio eccellente sono le Stroie di San Secondo curate da Ludovica Galeazzo, che culminano in una visita virtuale dell’isola conventuale, oggi completamente perduta, che era punto di ricovero e sosta quando tra Mestre e Venezia la via di comunicazione era il canal Salso. Si assiste, con emozione, alla sua edificazione, alla sua trasformazione, alla sua distruzione dopo la fine della Repubblica.
L’attenzione agli artefatti, e alla regolazione delle attività economiche e dei lavori pubblici, percorre tutta la Mostra: i libri di cucina, gli erbari, i cataloghi antichi di pentole e casseruole si vedono nei preziosi originali, convenuti dalle raccolte e dagli archivi. Ma si animano nei touch screen, dove quegli oggetti si animano e arredano le osterie del settecento, luoghi niente affatto malfamati, ma anzi, alberghi rinomati e certificati, dati in appalto ai gestori da privati, monasteri, o dal demanio. Osterie, dove sostavano ambasciatori e nobili, poeti e scrittori, artisti e uomini d’affari.
Una mostra vivace, che testimonia la vitalità di una città che non è solo arte sublime, e non è solo pop pittoresco o peggio triviale, ma può essere approdo degli affanni quotidiani ad una riva costruita nei secoli: i gesti e gli artefatti ci restituiscono i momenti della storia di una civiltà.