Dalle periferie al cuore della città
L’urlo della street art
Il Museo Bilotti di Roma ospita le foto di Mimmo Frassineti che raccontano le origini, lo sviluppo e l'oggi di una forma d'arte effimera (e non storicizzabile) per scelta
Il primo è vecchissimo, anni 70. È il grande dipinto murale dell’Asino che vola, a Tor di Nona, nato da un collettivo romano che appoggiava gli occupanti di case popolari e che raccoglieva gente diversissima, come Paolo Ramundo (degli Uccelli) e Isabella Rossellini (attrice), Carlo Zaccagnini (critico msicale) e Jasmin Ergas (sociologa e giurista) e Giuseppe Roma (ex direttore Censis). Antenato della street art, di quel murale si è salvato solo un pezzo, l’asino che vola appunto. Ma i dipinti coloratissimi furono per anni un salutare shock per un lungotevere ingessato e imborghesito.
Il merito di aver ricordato l’asino che vola è del fotografo Mimmo Frassineti, che lo fotografò allora – aiutando a conservare la memoria anche dei disegni cancellati – e che ha dedicato una mostra alla streeet art, Urbs picta al Museo Bilotti, l’Aranciera di villa Borghese. Quell’asino, così naif da essere salvato da un pesante restauro edilizio, ha il merito di ricordare una lotta finita bene. Le altre foto di Frassineti mostrano un assaggio del catalogo che il fotografo – appassionato artista anche lui – ha costruito in questi anni e messo a disposizione di chi ama la street art nel sito http://romagraffiti.com/. Dove ha potuto, Frassineti dà conto degli autori, ma non tutto nella street art è attribuibile a questa o quella mano, pur se molti degli autori ormai sono affermati pittori.
Blu, ad esempio: schivo bolognese che rifiuta di farsi fotografare o intervistare, ma che lascia a Roma – come ha fatto in moltissime metropoli del mondo – opere monumentali graffianti, critiche e non omologate. Bellissime. Come Lucamaleonte con i suoi disegni medievaleggianti, Hitnes con le invasione di animali, Borondo con le sue larghe pennellate quasi impressioniste, Atoche con i suoi faccioni medicei. E Eduardo Kobra, che lascia sul muro esterno del Maam (il Museo dell’altro e dell’altrove, nido d’elezione della street art) il volto di Malala, il famoso Erika il cane, Dem con le sue figure zoomorfe. Daviù alias Davide Vecchjato, e Neve con i volti di bambini dagli occhi luminosi…. Inutile citarli tutti, la storia della street art non è fatta di sigle e nomi ma di monumenti colorati, che cambiano il paesaggio per i passanti, e mostrano scorci e prospettive diverse agli abitanti della città. Offerti alle intemperie, anche quando vengono promossi dalle amministrazioni pubbliche, non saranno per questo meno effimeri. Inutile invocare restauri, inutile cercare di proteggerli: le opere seguono il destino dei muri che le ospitano, si degradano, si dilavano, a volte vengono cancellati da altri writers, altre volte da restauri poco intelligenti. L’autore, una volta data l’ultima pennellata, li dona e li abbandona alla città.
Qui, nello spazio “colto” della Galleria Bilotti, i disegni urlano, con un linguaggio forse di non facile lettura, le loro storie di periferia. Raccontano di Garbatella e Prenestino, Quarticciolo e Tormarancio, Monte Mario e Vigna Clara. Raccontano di lotte e resistenze anche quando non sembra: l’enorme affresco in bianco e nero di Blu nel centro sociale Acrobax, Vasca Navale, sembra un dipinto neoclassico, ma nasconde la beffarda iconografia della repressione e dei potenti visti dal basso, vescovi militari padroni e poliziotti. Come la sua spirale della vita, dalla cellula al mondo moderno che si sgretola e implode, dipinta accanto al Museo degli elefanti di Rebibbia, parla di un futuro prossimo, se non riusciremo a fermarlo. In periferia come al centro di Roma.