Ultime repliche a Roma di “Mahagonny”
L’idioma di Weill
La rilettura di John Axelrod e Graham Vick, in scena al Teatro dell'Opera, esalta pienamente il linguaggio operistico dell’autore, non sempre considerato di alto mestiere. Come il destino esecutivo di “Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny” dimostra…
L’allestimento è molto pregevole e il titolo è di rara esecuzione. Ascesa e caduta della città di Mahagonny (Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny), tre atti con musica di Kurt Weill su libretto di Bertolt Brecht, messo in scena a Roma dal Teatro dell’Opera, è affidato (come già è stato scritto negli approfondimenti di Nicola Fano e di Lidia Lombardi: https://www.succedeoggi.it/wordpress2015/10/tutti-a-mahagonny/ e https://www.succedeoggi.it/wordpress2015/10/brecht-ai-tempi-di-mafia-capitale/ ndr) per la parte musicale alla direzione di John Axelrod, e per quella visiva alla regia di Graham Vick in una coproduzione con la Fenice di Venezia e il Palau de les Arts Reina Sofia di Valencia. Brecht e Weill si incontrarono, nella primavera del 1927, proprio collaborando alla stesura di un “pastiche” intitolato Mahagonny, nel quale il compositore rivestì di musica sei testi poetici del drammaturgo. La riuscita del lavoro, nonostante contestazioni e difficoltà prodotte dalle avvisaglie dell’ascesa nazista, indusse i due a ricavare da quell’abbozzo un’opera vera e propria, che li impegnò nell’estate-autunno sempre del 1927, per poi debuttare nel marzo 1930 con il titolo completo che conosciamo. Le successive vicende storiche in Europa ne tarparono la diffusione. Soltanto a distanza di anni dal secondo conflitto mondiale, e dalla susseguente scomparsa dei due autori, Ascesa e caduta della città di Mahagonny ha poi trovato un suo destino esecutivo, mai molto intenso, per la verità.
La vicenda, ambientata in America, racconta di tre avventurieri, due uomini e una donna, in fuga perché ricercati dalla polizia con l’imputazione di bancarotta e lenocinio. Sono diretti verso la Costa dell’Oro, a cercare fortuna, ma il loro autocarro si guasta, e li pianta in una zona desertica. Decidono quindi di fondarvi una città, che offra ogni divertimento e soddisfi ogni bisogno dei cercatori d’oro in transito, a cominciare da sesso e alcool. Una città dei sogni, che attira anche quattro tagliaboschi dall’Alaska, tra i quali Jim, il protagonista, che si innamora di una delle prostitute, Jenny. Ma anche quest’apparente paradiso entra in una crisi economica che, insieme al preannuncio di un incombente uragano, diffonde anarchia e disordine. Jim, vista la fine annunciata, coglie l’occasione per propugnare nuove leggi, in base alle quali tutto è consentito. Inopinatamente l’uragano cambia direzione, e risparmia la città di Mahagonny. Ma ormai la popolazione si è data alla pazza gioia, coltivando gli insensati piaceri che le vengono offerti, e che non rappresentano valori umani, bensì pulsioni create artificialmente, ancora una volta a scopo di lucro. La totale estraneità di tali iperbolici stimoli dalla reale condizione umana finisce per mettere in primo piano la sacralità del loro prezzo, unico totem riconosciuto nella generale corruzione di convenzioni e principî. E l’impossibilità di pagarlo conduce all’espulsione dalla società, fino all’espulsione dalla vita, come accade a Jim, condannato a morte per non aver onorato il conto. Il che conduce infine tutta Mahagonny al precipizio e alla fine.
L’opera rappresenta dunque la fatale traiettoria di una comunità che si regge sulla centralità del denaro. E la sua implicita ripulsa coinvolge non soltanto i promotori di quel modello sociale, ma anche chi crede di sovvertirlo, affermando in realtà, come Jim, un obiettivo puramente edonistico e trasgressivo, privo di un’ideologia alternativa, costruttiva, secondo la visione di Bertolt Brecht. E la musica di Kurt Weill, all’epoca già stimato tra i più promettenti compositori tedeschi della sua generazione, trae ispirazione dal retroterra della canzone e del cabaret, per approdare a un’architettura di solida complessità e finezza sia sul piano strutturale, sia su quello della strumentazione e delle scelte timbriche. È uno stile che, dai modelli iniziali, decolla a una qualità di linguaggio operistico di alto mestiere, sotto ogni aspetto. E in questa modernità espressiva, e ad esempio nel recupero delle cosiddette forme chiuse, l’idioma di Weill si libera senza esitare di ingombranti eredità della tradizione germanica anche illustre.
Questa sapiente attualità di creazione musicale è còlta e restituita a pieno dal lavoro di concertazione e direzione di John Axelrod, che ottiene dall’orchestra un suono e una temperatura espressivi quanto mai appropriati e calzanti, anche se talvolta qualche eccesso di sonorità copre un po’ le voci, come nell’aria di Jim all’avvio dell’atto terzo. Ma soprattutto funziona e sorprende il brillante progetto scenico di Graham Vick, che ha genialmente attualizzato la cornice della trama, collocandola di volta in volta nella scintillante hall di un aeroporto e in altri analoghi non-luoghi, dando vita a uno spettacolo sempre movimentato ed elegante, con l’aiuto di Stuart Nunn, scene e costumi, di Ron Howell, movimenti coreografici, di Giuseppe Di Iorio, disegno luci, e di una nutrita, entusiasta pattuglia di allievi dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica. Bene il coro preparato da Roberto Gabbiani, con qualche perplessità per l’episodio a cappella. Molto bravi i cantanti, ben calati nei rispettivi ruoli di Leokadja (Iris Vermillion), Fatty (Dietmar Kerschbaum), Trinity Moses (Willard White), Jenny (Measha Brueggergosman), e Jim, reso più che dignitosamente dal tenore Brenden Gunnell, che però non possiede l’accento aggressivo e greve che talvolta il suo personaggio vorrebbe. Caloroso successo finale per tutti gli interpreti, con repliche da fino a sabato 17 ottobre.