Gianni Cerasuolo
Fa male lo sport

La truffa di Lance

Sprezzante, potente, minaccioso e soprattutto pieno di Epo fino alla punta dei capelli. La farsa tragica di Lance Armstrong, che i potenti del ciclismo hanno accarezzato per anni, arriva in libreria e al cinema con David Walsh e Stephen Frears

La storia di Lance Armstrong è stata innanzitutto uno storia di potere. Il potere di comandare, di corrompere, di contare su una rete di complici e sull’omertà di tutto un ambiente. Il potere e l’arroganza di avere per amici personaggi importanti e influenti compresi Bush jr., Clinton e Obama, di attaccare con cattiveria e calcolo i nemici, i trolls come chiamava alcuni.

Non ha fatto tutto da solo, il texano. In tanti hanno contribuito ad allestire la truffa gigantesca: i dirigenti dello sport mondiale, e del ciclismo in particolare, che non hanno pagato alcun prezzo per l’inerzia e la protezione offerte; i medici che hanno incassato tanti soldi ingozzandolo di farmaci; gli sponsor che lo hanno ricoperto d’oro, forse  sapendo ogni cosa, eppure i primi a mollarlo appena il vento è cambiato, Nike in testa, togliendo a Lance qualcosa come 75 milioni di dollari.

Tra chi è rimasto a guardare, aggiungerei anche i giornalisti, non tutti, certo molti di quelli impegnati nella consacrazione di un nuovo idolo. Ha annotato David Walsh nel suo The Program (Sperling &Kupfer), il libro da cui Stephen Frears ha tratto ispirazione per il suo film, una crime story con Ben Foster buon protagonista, ora  nelle sale, un’opera che ripercorre in maniera quasi didascalica il lavoro del cronista del Sunday Times: «Per troppo tempo il giornalismo sportivo – ha osservato Walsh – è stato un inneggiare smodato e sconsiderato, ha allontanato dubbi legittimi e si è accontentato di articoli sul tema dell’eroismo sportivo. Naturalmente ci sono momenti in cui è giusto festeggiare e applaudire, ma ce ne sono altri in cui è ugualmente corretto tenere le braccia lungo i fianchi». Maurizio Crosetti su Repubblica ha riconosciuto, parlando del film, che erano in pochi quelli che nelle redazioni sollevavano dubbi sulla “pulizia” dell’americano (in Italia, uno su tutti: Eugenio Capodacqua): «Avevano ragione loro, e noi non gli abbiamo creduto», ha ammesso con onestà.

Non ha giocato mai di rimessa, Lance. Ha sempre attaccato chi lo attaccava. Plateale, istrionico, violento a volte. Viscido e astuto altre volte. Chiamava una redazione e diceva: «Non mi piace per nulla come mi state trattando». A Le Monde vomitò che era un giornale di avvoltoi. Quando un giornalista del quotidiano politico francese lo incalzava con le domande, lo sfidò urlando: «Signor Le Monde, mi sta dando del bugiardo o del dopato?».

lance armstrong2Il campione piaceva alla gente, nonostante le asprezze da cowboy: era un uomo che aveva sconfitto il cancro e che si era dato tanto da fare per raccogliere soldi con la sua Fondazione per favorire la ricerca contro la malattia, era quello che aveva un gatto che chiamava Chemio, quello del braccialetto giallo Livestrong, quello che donava sorrisi e andava nelle corsie degli ospedali e giocava con i bambini ammalati. Lui ce l’aveva fatta. Lui aveva alzato le braccia al traguardo indicando il cielo e facendo scendere lacrime sui nostri volti perché ricordava così il povero Fabio Casartelli, morto in una maledetta discesa del Tour. Lance, il principe buono della nuova favola a stelle e strisce. Anche se nel ciclismo, Cappuccetto Rosso ha le siringhe nel cestino, ha notato con uno dei suoi guizzi Gianni Mura che pure ha tanto creduto in Armstrong («fino a quando i test antidoping non lo smentiscono, ha ragione lui», ha scritto e detto più volte prima che lo scandalo scoppiasse).

Armstrong non adoperava cestini, casomai lattine di bibite  dove nascondere le siringhe macchiate di sangue. L’EPO ce l’aveva nel frigo come fosse uno yogurt o una bottiglia di latte. L’Eritropoietina, l’EPO appunto, è la benzina del ciclismo dalla fine degli anni Ottanta. Ne ha ammazzati un bel po’, di ciclisti, l’EPO. Oppure ha lasciato segni pesantissimi, tragici: Pantani, caduto in depressione e ucciso da una overdose di cocaina; Josè Maria Jimenez, depressione e attacco di cuore; Frank Vandenbrouke che tentò di uccidersi. E tanti altri, meno noti.

Quelli della Postal, la squadra di Armstrong, il “treno blu” dei Tour vittoriosi di Armstrong (sette dal 1999 al 2005), avevano una organizzazione perfetta per procurarsi le fiale. Un po’ per gioco, un po’ per evitare di rimanere incastrati, l’EPO era Edgar. Il sangue, i brividi, vale a dire Edgar Allan Poe. «Ce l’hai un po’ di Edgar?» chiese Tyler Hamilton entrando nella stanza di Lance a Nizza. «Lance indicò con naturalezza il frigo. Lo aprì e lì, sullo sportello, vicino ad un cartone di latte, c’era un cartone di EPO, fiale in piedi e sigillate, soldatini nel loro box di cartone. Ero sorpreso di quanto Lance fosse sprezzante…».

Hamilton è stato per anni lo scudiero fedele di Armstrong in corsa e fuori, poi è diventato il suo rivale in corsa e fuori. Fino a scrivere un libro con Daniel Coyle, La corsa segreta, che ha rivelato tra i primi l’inganno e le bugie. Hamilton è stato tra quelli che non si sono piegati alle minacce ed hanno vuotato il sacco davanti agli investigatori statunitensi. Nel lavoro di Frears si vede poco, ha più spazio Floyd Landis, un anabattista mennonita che prese il posto di Hamilton in squadra e nel cuore del texano e che ad un certo punto è diventato implacabile accusatore.

L’EPO veniva recapitata da “Motoman”, cioè Philippe, un corriere francese assoldato dall’americano. Bastava fare un fischio e quello arrivava con il suo thermos pieno di “bombe”. Alla festa a Parigi per il primo Tour vinto, i corridori regalarono un Rolex a “Motoman”.

Insolente e duro, Armstrong lo è sempre stato, anche se in pubblico si mostrava diverso. Vincere, questa è stata la sua ossessione. Una immagine molto lontana da quella del 1996: un uomo qualsiasi, ferito e malato, i capelli rasati come fosse uscito da un campo di sterminio. Lo si vede in un documentario che gira in questi giorni su Sky, riproposto da Bike:scene che inducono alla pietà, lui è stato appena operato alla testa per le metastasi del tumore ad un testicolo. Com’è distante lì dal boss mafioso di qualche anno dopo che prendeva di mira quelli che nel plotone non ci stavano, che non si piegavano al codice del silenzio della carovana. Christophe Bassons era uno di questi. Al Tour del ’99 Christophe continuava a ripetere che la cultura del doping non era sparita, nonostante lo scandalo Festina di un anno prima, quando la squadra di Virenque e Zuelle, fu colta con le mani nel sacco dai gendarmi francesi. Un giorno, durante una tappa, gli si avvicinò Armstrong, come Frears mostra, secondo quello che scrive Walsh (autore anche con un altro giornalista, Pierre Ballester, di L.A.Confidential sempre sul texano dagli occhi di ghiaccio). E gli disse: «Sai, quello che stai dicendo ai giornalisti non fa bene al ciclismo». Bassons non si fece intimidire: «Sto semplicemente dicendo quello che penso. Cioè che il doping c’è ancora». «Se questo è il motivo per cui sei qui, faresti meglio a tornartene a casa e a cercarti un altro lavoro», minacciò l’americano. «Non me ne andrò senza aver cambiato qualcosa. Se ho qualcosa da dire, la dirò» rispose il francese. E l’altro: «Ah, vaffanculo».  Bassons non ricevette solidarietà dalla carovana. I suoi stessi compagni di squadra gli dissero di smetterla, che così danneggiava tutti. Bassons due giorni dopo lasciò il Tour.

ance armstrong5Ha fatto il gradasso, Lance Armstrong, anche con Filippo Simeoni che aveva parlato male del compagno invisibile dell’americano, il dottor Michele Ferrari, il Belzebù del doping, un altro dei personaggi del film (il medico ha chiesto il sequestro della pellicola: sostiene di non aver mai dato prodotti dopanti all’americano). La maglia gialla andò a riprendere Simeoni in una delle ultime tappe del Tour 2004 e gli fece cenno, platealmente, di cucirsi la bocca.

Ancora: a Greg LeMond che invitava gli spettatori a guardare attentamente gli occhi di Lance durante gli scatti sulle salite durissime, occhi pieni di sangue sottolineò, un giorno disse al telefono: «Tu non hai mai usato l’EPO? Se vuoi la guerra, avrai la guerra. Troverò dieci persone che diranno che hai usato l’EPO». E ha continuato a insultarlo in seguito, infamando il vecchio campione, vincitore di tre Tour: ha problemi di alcol e di droga, diceva davanti alle telecamere. A Emma O’ Reilly, la sua ex massaggiatrice, spettatrice di molte illegalità, gli ha gridato, quando la donna ha cominciato ad accusarlo: «Sei soltanto una sgualdrina». E ha continuato a blandire e a minacciare un’altra donna, teste chiave nelle inchieste dell’Usada, l’antidoping statunitense che lo ha inchiodato e gli ha tolto i sette Tour vinti, l’agenzia guidata dal segaligno e tenace Travis Tygart. Una donna testimone prezioso anche per l’indagine di Jeff Novitzky, l’agente federale che con il procuratore Doug Miller aveva allestito il caso Balco, quello che ha rivelato quanto sporco fosse lo sport statunitense. Ma qui gli amici influenti di Lance forse hanno funzionato: un procuratore archiviò il procedimento.

Questa donna è Betsy Andreu, la moglie di Frankie Andreu, uno dei gregari di Armstrong. La quale ha sempre sostenuto che poco prima che operassero Lance nell’ospedale dell’Indiana, dei medici si recarono nella stanza dell’ammalato, presenti molti suoi amici. I sanitari fecero a Lance delle domande di rito e poi gli chiesero se avesse mai fatto uso di sostanze dopanti. Lui rispose: «Ho preso EPO, testosterone, ormone della crescita…». Lei si spaventò e giurò al futuro marito che non lo avrebbe più sposato se fosse venuta a sapere che anche lui prendeva quella roba. Non ha mai avuto tentennamenti, Betsy. Ha resistito a minacce e a corteggiamenti vari. Armstrong ha continuato a ripetere che non aveva mai detto quelle cose ai medici. E ha accusato Betsy di essere una squilibrata.

lance armstrong3Quando Tyler Hamilton, che era passato a un’altra squadra e si faceva rifondere il sangue con le pratiche del medico spagnolo Eufemiano Fuentes, battè Armstrong sul Mont Ventoux nel 2004, ricevette una strana convocazione dall’Uci in Svizzera. I capi del massimo organo mondiale del ciclismo fecero capire ad Hamilton che lo tenevano sotto osservazione. Insomma, sapevano che si dopava ma invece di fermarlo e di sospenderlo o di aprire un procedimento, gli mandarono un avvertimento, come fa la mafia. L’Uci era stata sollecitata dallo stesso Armstrong.

Cinque anni prima, al Tour del ’99, Le Monde rivelò che Lance era risultato positivo al cortisone dopo il prologo. Ma il clan della Postal e Armstrong non si scomposero. Fecero retrodatare una ricetta a base di una crema al cortisone dicendo che il corridore aveva un’infiammazione al soprasella e la scamparono con la complicità di quelli dell’Uci. Non era forse il Tour del rinnovamento?

Il texano è arrivato al punto di tentare di corrompere l’Usada. Nel 2004 disse ai dirigenti che voleva fare una donazione di 250 mila dollari. Fu respinto. Ma questo era il suo modo di comportamento in un ambiente – quello dello sport e non solo del ciclismo – dove la corruzione, l’avidità, l’omertà governano spesso ogni cosa. Guardate che cosa sta venendo fuori tra Blatter e Platini. Come del resto accade per altri scandali lontano da stadi e piste. D’altro canto, anche tra i cicloamatori, quelli della sgambata domenicale, gira tanta “roba”. E invece di farsi una bella mangiata, si va più spesso in farmacia.

lance armstrong4Lo sport dello spettacolo e degli sponsor, lo sport che non si ferma mai ha prodotto tante belle cose ma quelle brutte primeggiano nelle classifiche. Hanno scritto Hamilton e Coyle: «Il ciclismo professionista segue un modello darwiniano: le squadre sono sponsorizzate da grandi aziende e competono per essere ammesse alle grandi corse. Non ci sono certezze: gli sponsor possono andarsene, le corse stesse, le loro organizzazioni, possono decidere quali squadre invitare e quali no. Il risultato è una perpetua catena di nervosismo: gli sponsor sono nervosi, perché hanno bisogno di risultati. I direttori sportivi sono nervosi perché hanno bisogno di risultati. E i corridori sono nervosi perché hanno bisogno di risultati per strappare un contratto». Per ottenere buoni risultati bisogna spingere al massimo, sempre. Fino a schiattare. Dal 1980 al 1990, la velocità media del Tour de France era di 37 km/h; dal 1995 al 2005 è arrivata a 41,6 km/h.

Quando Lance Armstrong nel gennaio 2013 ha finalmente confessato le sue menzogne nel salotto televisivo di Oprah Winfrey ha pronunciato cinque sì consecutivi. «Hai preso sostanze dopanti?». «Sì». «Epo?». «Sì». «Emotrasfusioni?». «Sì». «Altre sostanze come il testosterone?». «Sì». «In tutti i tuoi sette Tour vincenti, avevi preso sostanze?». «Sì». Poi si è ricomposto ed ha ripreso il controllo di sé: lo rifarei, impossibile vincere senza l’EPO, non ho inventato io questa cultura, lo facevano tutti, certo non ho fatto nulla per fermarla. A gennaio scorso in un’altra intervista ha puntualizzato: «Se iniziassi oggi non mi doperei. Ma se mi portaste indietro, probabilmente lo rifarei. So quello che è successo all’industria del ciclismo, l’ho fatta espandere. So cosa è successo alla mia fondazione per combattere il cancro: da non raccogliere un dollaro a raccogliere 500 milioni di dollari e aiutare tre milioni di persone». Lo ripete anche nel film.

A Chris Froome, l’ultima maglia gialla sotto l’Arc de Triomphe, oggetto di continui sospetti di doping durante la corsa soprattutto da parte dei media francesi, hanno tirato addosso delle sacche con la pipì durante qualche tappa. I soliti francesi sciovinisti. Non c’è bisogno di arrivare a tanto. Basterà tenere bene in mente le parole di Sandro Donati – il vero antidoping italiano – e che David Walsh ha citato all’inizio del suo libro: «Seguo le Olimpiadi, ma non mi sforzo più di ricordare i nomi degli atleti. È come il teatro, che però preferisco, perché lì il rapporto tra attore e spettatore è chiaro. Nel teatro dello sport, invece, fingono entrambi che sia tutto vero».

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