Tra saggistica e narrativa
Tempesta sul ‘900
«Non luogo a procedere», il nuovo affascinante libro di Claudio Magris è un apologo sul secolo delle contraddizioni: un tempo lungo di vita e di morte che ha perso anche il privilegio della memoria
La Risiera di San Sabba a Trieste è stata, negli anni dell’occupazione nazista, lager; con tutti i suoi aspri orrori e luogo dell’unico forno crematorio in territorio italiano, tanto bruciante che si è cercato di dimenticarlo, anzi lo si è dimenticato per anni e anni, finché non lo si è “riscoperto” e trasformato in luogo della memoria. E il bisogno di ricordare, di fare testimonianza è alla radice di tutta l’opera di Claudio Magris e in particolare del suo nuovo libro, Non luogo a procedere (Garzanti, 362 pagine, 20 Euro), chiamiamolo per comodità romanzo, per quel che questo termine oggi significa, che è un libro-mondo, almeno di tutto un mondo che è quello da cui il nostro è nato e ne è conseguenza.
La Risiera è solo un filo rosso che riaffiora spesso, come il fumo del suo camino, in quella che finisce per essere una storia emblematica, complessa e vasta che, pur concentrata su Trieste, si allarga all’Europa e comunque riesce ad avere, grazie alla intensità della scrittura e alla forza poetica e affabulatoria, un valore assolutamente esemplare del rapporto dell’uomo col male, con la guerra e la pace, con i ricordi e l’oblio, di cui sono emblema i muri velocemente ricoperti di calce della Risiera, per cancellare ogni traccia di scritte e graffiti nelle celle con nomi di traditori e denunzie e, imbiancati, diventano allora in queste pagine l’emblema di tutta la storia umana che «è un raschiamento della coscienza e soprattutto della coscienza di ciò che sparisce, di ciò che è sparito… La Storia, la società, sono maestre di neurochirurgia e stanno facendo rapidi progressi».
È così che il processo ai responsabili diretti e indiretti di quel che accadde alla Risiera finì in un «non luogo a procedere» e questo ricordare quei tempi e quel luogo si fa atto d’accusa, senza esplicitare nulla, ma solo perché lo è di per sé gran parte della storia del Novecento. Una storia complessa, che vive di più storie, parallele o meno, di divaricazioni, contrasti e divagazioni, che nascono tutte però da una stessa radice e vanno a tessere un unico disegno, a rendere una realtà contraddittoria, ma comunque chiara. E il «non luogo a procedere», l’assenza di una condanna, diventa la condanna della Storia.
Trieste per tutta la prima parte del Novecento, ma anche poi oltre, è stata luogo emblematico e tragico di illusioni, ideali e sangue, come un luogo sperimentale avanzato in cui la guerra e la pace, l’Europa divisa postbellica, mostravano il peggio e il meglio di loro, affondando le radici in una grande storia e cercando una difficile strada per il futuro. Magris rende quell’atmosfera in cui nascono vicende epiche, alte e basse, in cui razze, religioni, ideologie si confrontano e scontrano, in cui convivono uomini diversi come il Gauleiter Friedrich Rainer o il colonnello delle SS Lerch e don Edoardo Marzani, sua vittima e uno degli artefici dell’insurrezione della città.
La spina dorsale narrativa di queste mille e una storia, sia quelle terribili (di guerra, morte, torture), sia quelle meravigliose (bellissime pagine su Praga e sull’America), è un paradossale museo delle armi «Ares per Irene ovvero Arcana Belli. Museo totale della Guerra per l’avvento della Pace e la disattivazione della Storia», secondo l’intitolazione che gli ha dato il suo creatore, un grottesco e donchisciottesco collezionista di armi, da un’ascia a un cannone, da un carro armato a un sommergibile (come scopriamo, mentre Magris ci racconta sala dopo sala), che amava dormire in una bara tra i suoi cimeli, dove finirà incenerito da un incendio, assieme ai suoi taccuini con i nomi meticolosamente ricercati di spie e collaborazionisti durante l’occupazione tedesca di Trieste. La storia e le ossessioni di questo personaggio (che ha, solo come punto di partenza, la figura vera di Diego de Henriquez) sono alternate da Magris con quella famigliare di Luisa Brook – la donna a cui il protagonista si racconta – figlia di un’ebrea e di un soldato americano nero (a intrecciare storie fruttifere di discriminazioni e persecuzioni), incaricata di realizzare il progetto per la sistemazione del museo. Ma poi c’è anche una madre, Sara, schiacciata dal rimorso di essere sopravvissuta allo sterminio della sua famiglia. Come Magris con le vicende degli uomini, lei cerca di dare una sistemazione e un senso al caos di questa collezione informe di oggetti di guerra, antichi e moderni, strumenti di morte manovrati da esseri vivi. Basti citare cosa è scritto a proposito della Mitrglietta Saint-Etienne da 8 mm. del 1907: «Anche gli ufficiali che ordinano di collocare e puntare la mitragliatrice non hanno occhi per i soldati che se la caricano in spalla, la sistemano, puzzano e crepano in trincea».
Da molte armi, da tante situazioni, da genitori, nonni e parenti dei due “protagonisti”, dalla vita a Trieste negli ultimi anni della guerra, tragica, paradossale e grottesca nella contiguità assoluta tra morti atroci e feste fastose – e sino ai nostri giorni – nascono le varie storie, ognuna portatrice e rivelatrice di un suo pezzetto di verità: storie che si divaricano e si intrecciano, storie che si fanno Storia senza salvezza e che, con la forza del loro essere comuni e esemplari insieme, vincono la curiosità del lettore, che le insegue di capitolo in capitolo, ne viene travolto e ne riemerge sino alla fine che è, come in ogni storia sul Novecento, una non fine. «No. Non c’è alcun “dopo” la Risiera; nessuno che esca incolume dall’arca, che si culla lieve sul mare tornato tranquillo. Nessuno è sopravvissuto al diluvio, comunque ce la raccontino, perché il diluvio non è mai cessato e il mare è sempre furente. Solo i pesci si sono salvati, indifferenti alle acque in tempesta».