L'Europa dei migranti
La jungle di Gorizia
Tra i "richiedenti asilo" (per lo più afgani) sbattuti sul greto dell'Isonzo a rischio esondazioni: il racconto di Andrea Segre, il regista che ha cercato di salvarli. Riportandoli, almeno, all'asciutto
«Chi sa cosa sia la jungle di Gorizia?». Cento giornalisti in sala, solo due mani si alzano. Questione d’immagine (il racconto del sociale sui media. Il caso dell’immigrazione), seminario di formazione per giornalisti organizzato da Redattore sociale ha già dimostrato la sua ragion d’essere se una platea di persone interessate all’immigrazione non sa nulla di questa vicenda. Rara eccezione, nella pletora di appuntamenti di aggiornamento professionale, forse frequentato da giornalisti a caccia di punti più che da appassionati.
La domanda la fa Andrea Segre, che non è giornalista. Documentarista, regista (suo il bellissimo Il mio nome è Li), racconta che cosa sia la jungle di Gorizia. Un bosco, appunto, dove vivono da più di un anno centinaia di richiedenti asilo. Registrati ufficialmente, il Cara di Gradisca non li può ospitare e sono abbandonati a se stessi finché la commissione non li chiamerà perché possano raccontare la loro storia: un anno, a volte molto di più. Nel frattempo, non possono lavorare ma devono risiedere qui in Italia, in attesa della chiamata. E dunque vengono gentilmente indirizzati sul greto dell’Isonzo, dove possono costruirsi una baracchetta, plastica e cartoni, per sopravvivere all’attesa.
Che c’entra con la jungle di Gorizia Andrea Segre? Ce l’ha portato un abitante del luogo, con cui il regista era in contatto: non ne hai mai sentito parlare? Ma qui tutti sanno, la jungle è normale. Normale. Normale vivere così nel primo mondo, quello orgoglioso di Expo e di altre meraviglie. Normale che a questo centinaio di uomini (afghani per lo più, ma anche siriani o egiziani) probabilmente perseguitati in patria non si sappia dare una risposta che non sia: arrangiati. C’è la parrocchia della Madonnina, di là dal fiume, che offre pasti serali e doccia calda, ma a turno. Ci sono persone che aiutano, ma di nascosto: la cosiddetta società civile vociante già si è lamentata che non può più portare i cani a passeggiare sulle rive del fiume.
Tutto molto normale. Ma avviene che le piogge d’autunno abbiano fatto gonfiare il fiume, troppo. Avviene che il regista, per caso tornato a Gorizia, si renda conto che c’è un pericolo vero, incombente, per quei rifugiati. Ormai li conosce, sa le loro storie. Sa che Alì è arrivato dall’Inghilterra, dove ha vissuto per anni perché ha finito il suo ciclo di studi e ora è a rischio di espulsione: tornare indietro per lui è molto pericoloso. I suoi amici hanno storie altrettanto tormentate, e intanto in Afghanistan la guerra continua. Così decide di fare qualcosa. Chiama i vigili del fuoco che pensano di rassicurarlo: niente paura, il fiume non si gonfierà tanto da inondare le case. Le case forse no, ma l’accampamento è molto più in basso, alcune tende sono già sommerse, si accalora lui. Vedremo, sentiremo la Protezione civile. Il cui telefono squilla a vuoto. Così la Prefettura e il Comune.
Segre, insieme al piccolo gruppo di italiani che è riuscito a coinvolgere, non si dà vinto. Telefona al sottosegretario Luigi Manconi, chiama ancora il sindaco, i vigili. E intanto organizza l’esodo: centodieci persone raccolgono coperte e masserizie e si dirigono insieme verso la stazione di Gorizia. Resteranno lì per giorni, fin quando il sottosegretario Manconi riuscirà a ottenere che si allarghi il Cara di Gradisca. Come? Riaprendo l’ex Cie, una galera.
I letti sono di ferro, inchiavardati al pavimento, non c’è acqua calda, ci sono invece moltissime sbarre: la situazione migliorerà, assicurano le autorità, e speriamo. Intanto il fiume è lontano, questa volta non ci saranno sciagure. Grazie a chi?
Nota a margine: sì, una delle due persone che sapeva cos’era la jungle di Gorizia sono io. Perché? Grazie a Gazebo, RaiTre, che sull’immigrazione sta facendo, zitto zitto, un lavoro egregio. Diego Bianchi è andato nella jungle, ha parlato con alcuni dei suoi abitanti, e dunque mi ha consentito di informarmi meglio. Così come ha fatto con altri servizi a Ventimiglia, alle frontiere ungheresi, a Lampedusa. Ovunque intervistando persone, non stereotipi. Cercando la loro storia, come ha fatto con i due fidanzatini siriani approdati ad Amburgo, indimenticabili. Guardandoli negli occhi, e guardando negli occhi anche noi, che non vogliamo farci carico di quel che avviene nei luoghi di conflitto anche per colpa nostra, dell’Italia e dell’occidente. E che del mondo fa una giungla da cui fuggono uomini e donne e bambini. Sì, quelli come il bimbo Aylan, quelli come noi.