Danilo Maestosi
Alle Scuderie e a Villa Medici

La gabbia di Balthus

Roma rende omaggio con due mostre a Balthus, il "re dei gatti", prigioniero, come le sue creature, in un universo parallelo di aria, penombra stagnante, geometrie stranianti, che col tempo diventano una gabbia di maniera

Che stanza assegnare a Balthus (Balthazar Klossowski, 1904-2001) nel Grand Hotel Belle Arti del Novecento? Torna a riproporci questa domanda una doppia mostra in cartellone fino al 31 gennaio a Roma. Divisa in due sedi: le scuderie del Quirinale e l’Accademia di Villa Medici sul Pincio.

La prima tappa al Quirinale è una ricca antologica, che ne rivisita con vari capitoli a tema l’intera carriera. La qualità e la quantità delle opere reggono il confronto con la retrospettiva che nel 2001 il critico Jean Clair, uno dei suoi più fervidi ammiratori, riuscì in gran fretta a confezionare subito dopo la morte di Balthus nella sede veneziana di palazzo Grassi. Fu un rito di consacrazione da grande, forse ultimo maestro dell’arte di figura, che riuscì a squarciare la cortina d’isolamento nella quale, nonostante il successo, questo singolare aristocratico pittore si era confinato, inseguendo e provocando scandalo con le sue ambigue icone di fanciulle in posa, e rifiutando il dialogo con mode e tendenze d’avanguardia.

Oggi, quindici anni dopo, l’effetto di questa investitura è sbiadito. Il nome di Balthus sembra sprofondato di nuovo nell’oblio, poche continuano ad essere le sue opere esposte nei grandi musei. Persino il marchio e il sospetto di pedofilia che accompagnava in passato le sue mostre si è attenuato o comunque non basta a ridestare la curiosità e l’attenzione di una società, forse in fondo altrettanto intollerante, ma saturata dall’invasione a buon mercato del sesso, abituata a convivere con le sue manifestazioni più trasversali. E si è dissolta quell’aura esclusiva di salotti buoni, di conventicole altolocate, che ha accompagnato e scandito, come la certificazione di un pedigree per un animale da competizione, la sua scalata al successo. Insomma è il momento giusto per tornare ad osservare senza paraocchi, e al di fuori di intenti puramente celebrativi, il suo cammino d’autore, come cerca di fare la mostra organizzata dalle Scuderie del Quirinale. Con un percorso a ritroso che parte dalle prove giovanili, benedette da un padrino d’eccezione come il poeta Rilke, che fu a lungo amico e amante della madre Baladine, anch’essa pittrice: suggestivo il campionario di paesaggi e di scene della Parigi inizio anni Venti che rivela la forte influenza dei post-impressionisti e in particolare delle pennellate sfibrate di Bonnard, uno dei tanti amici eccellenti della sua famiglia.

balthus la stradaPoi, un colpo di zoom su due pagine fondamentali per la sua formazione. Intanto, la folgorazione per Piero della Francesca, attestata dalle copie degli affreschi di Arezzo: a lui il giovane Balthazar Klossowski, secondo rampollo dei conti di Rola, ruba il segreto di quei colori gessosi e di quello spazio circoscritto da rigide geometrie che trascinano fuori del tempo, ombre pregnanti di un’idea, personaggi e figure. Due dei tratti inconfondibili e ricorrenti del suo stile nascono da lì. Subito dopo, ecco un intero capitolo su uno dei suoi primi incarichi ufficiali: l’illustrazione del romanzo CimeTempestose di Emily Bronte. Una miscela di tenebroso romanticismo e cupe nostalgie infantili su cui, ispirato dal fratello scrittore Pierre Klossowski, comincia a sperimentare e modellare la sua bizzarra iconografia, donne bambine dai corpi sinuosi e seducenti da ballerina, teste volutamente ingrandite e deformate quasi a misurare il peso della razionalità e dei conflitti che devono sorreggere, movimenti ed espressioni bloccate in teatrini di tavole viventi. Ed ecco ancora un altro capitolo interamente dedicato all’universo fantastico e crudele di Lewis Carroll, l’autore di Alice nel paese delle Meraviglie, e al suo morboso affetto per le bambine che lo avevano ispirato. Altra impronta indelebile nell’immaginario simbolico del giovane pittore, che aveva ormai adottato il nome d’arte di Balthus: l’infanzia come regno perduto e proibito di malizia e innocenza, luogo geometrico di candore e ribellione.

Ed ecco, da questa terra ormai fertile, i primi capolavori degli anni Trenta. Come le due versioni della Strada. Uno scorcio di crocicchio urbano, una camera prospettica che sembra presa in prestito da una partitura rinascimentale, popolata da figure di donne e bambini, rigide ed enigmatiche come manichini. Nella seconda versione, che è tra le chicche di questa mostra, arrivata in prestito dal Moma di New York, si staglia in un angolo l’incubo di uno stupro: una ragazza che tenta di fuggire dall’abbraccio di un uomo che le fruga nelle mutandine.

Un’irruzione di erotismo e peccato programmata, ci informano i curatori della mostra, riportando tra le didascalie una lettera di Balthus alla prima moglie Antoinette in cui le spiega la sua intenzione di usare i riferimenti espliciti al sesso come un pugno allo stomaco per richiamare su di sé l’attenzione del pubblico. È una delle chiavi ricorrenti su cui Balthus costruisce e continuerà a costruire gran parte dei suoi quadri.

balthus La lezione di chitarraEcco su un’altra parete uno delle tele che all’epoca fecero più scandalo, La lezione di chitarra. La maestra è una sorta di Menade infoiata che tiene in braccio una fanciulla discinta e le accarezza la vulva. L’autore espose il quadro in una galleria privata, nascondendolo ipocritamente dietro una tenda. Stratagemma da pubblicitario che funzionò alla perfezione, ma oggi lascia affiorare più di un dubbio sulla sua sincerità e continuità d’artista. Su quell’impianto così costruito e calcolato, su quei trucchi palesi di morbosa messinscena, che emergono spesso come un contrappunto fastidioso, stridente, ripetitivo in molte delle opere successive a raffreddare emozione e prosciugare il mistero. Ma sono cadute imputabili al clima e alla cultura anticonformista dell’epoca di cui Balthus è figlio, ai dibattiti e alle prese di posizioni di quei salotti di intellettuali d’alto rango in cerca di nuovi metri per misurare la società e il mondo, ribaltarne le prospettive in cui l’artista ha maturato la sua vocazione: i manifesti del teatro della crudeltà di Antonin Artaud, con cui Balthus strinse amicizia e collaborò; la riscoperta e la rivalutazione del marchese de Sade e del suo catalogo di perversioni, il ribaltamento delle tesi freudiane operato dal fratello del pittore Pierre Klossowski, scrittore di spudorato erotismo, gli algebrici teoremi di Lacan, le influenze egemoniche del surrealismo con cui fare i conti, i fermenti di ritorno all’ordine che contagiavano tanta pittura di allora, decisa a lasciarsi alle spalle le terre bruciate e le avventure delle avanguardie.

Balthus condivide molte di queste opzioni, ma dall’alto di un suo cerebrale, aristocratico distacco, confermato dalla scelta delle sue dimore: passerà la vita traslocando da un castello ad un altro, la sua ultima dimora in Italia sarà una rocca di origine longobarda, Montecalvello, nascosta tra le colline della Tiberina. Lui, confessa in un noto autoritratto del 1934, tra i pezzi più intriganti di questa mostra romana, non è un predicatore da tribuna ma «il re dei gatti», appartato, egocentrico e sornione come il micione grigio che gli si strofina contro i pantaloni, e che riapparirà come suo alter ego in tanti altri lavori.

La Camera BalthusNeanche il vortice della guerra, gli orrori del nazismo mutano il suo modo di far pittura, quel suo rifugiarsi nella penombra defilata dei propri quadri, nelle ossessioni di luce e carne che impone ai corpi nudi delle sue modelle. Il suo inferno e il suo paradiso sussurrano e gridano in una stanza chiusa, come quella Camera, datata 1954, che resta il punto più alto della sua produzione: una fanciulla riversa sul canapè, vestita solo dai riverberi di una finestra, spalancata da una bimba impassibile e maligna. Prigioniero lui stesso, come le sue creature, in un universo parallelo di aria, penombra stagnante, geometrie stranianti, che col tempo diventano una gabbia di maniera, diversa ed estranea ai linguaggi che fuori il mondo, che cambia velocemente sguaiato e inafferrabile, continua a parlare.

Per questo, più ci si allontana dalla soglia dei primi anni Cinquanta più le sue opere ci appaiono fredde e mute, al massimo echi di una memoria perduta. Più le sue figure si trasformano in fantasmi sul punto di svanire, anche se i corpi a volte hanno sagome più massicce e imponenti, gli sfondi si fanno più neutri e decorativi. Con poche, sciagurate eccezioni. Come quella enorme tela datata 1949, che chissà perché ha incontrato il favore di un collezionista d’eccezione come Gianni Agnelli: un omaggio al Mediterraneo che vede un gigantesco gattone avvolto da un tripudio di blu, verdi, rosa, divorare un pesce, che gli atterra sul piatto da un tramonto da cartolina. Ecco cosa succede se Balthus decide di dar aria alla sua gabbia e uscire all’esterno.

E qui torniamo alla domanda di partenza: quale stanza assegnare a questo pittore d’alto rango, sfibrato dalla sua stessa raffinatezza, che – ancora trent’anni davanti da vivere – si presenta al bancone del Grand Hotel delle Arti del Novecento a chiedere alloggio? Una suite ai piani alti, come reclamano in troppi, o una camera in un corridoio di passaggio?

Ma forse è un interrogativo malposto: bisognerebbe chiedersi invece quale stanza un uomo così acuto ed esigente, anche con se stesso, reclamerebbe in quell’albergo museo. E può sicuramente aiutarci a trovare risposta proprio la seconda mostra appena inaugurata qui a Roma, quel più mirato, meno ambizioso omaggio che villa Medici rende a Balthus, esponendo al piano terra e lungo lo scalone d’ingresso le opere dell’ultimo trentennio. Ed aprendo al pubblico le sale della dimora rinascimentale dove, chiamato a dirigere l’Accademia da Andrè Malraux, ha vissuto per sedici anni, dal 61 al’77, lasciando un marchio indelebile del suo passaggio e del suo gusto. Ecco l’austero appartamento del Cardinale al quarto piano dove abitava con la sua seconda, giovanissima moglie giapponese Setsuko; ecco le stanze e i corridoi che lui stesso aveva fatto ridipigere con una tavolozza di colori a pastello raschiati via dopo l’applicazione nell’intento di recuperare sulle pareti il sapore dell’antico e insieme le tracce e le rughe del tempo. Ecco la stupefacente camera turca, un piccolo scrigno di maioliche e d’incanti orientali costruito a fine Ottocento dal suo predecessore Horace Vernet sulla sommità di una delle torri, che Balthus volle riarredare e che immortalò con quel titolo nel 1966 in uno dei suoi capolavori più noti, incastonando in quello sfolgorio di arabeschi l’immagine composta e maliziosa di sua moglie, che gli aveva riacceso il motore del desiderio e del sesso, sigillata nel ritratto di una geisha adolescente che si rimira nuda allo specchio. E così via fino al riordino del giardino dove volle riunire e rimontare insieme come in una scena teatrale le statue che evocavano il mito e il supplizio delle Niobidi, prima disperse in vari luoghi. Tutte opere firmate anche queste.

balthusPassato ad altri compiti, l’artista cede il posto al maestro di gusto, che si dedica al recupero e all’arredo come stesse rimettendo ordine nella sua stessa memoria, apre il salotto di villa Medici agli intellettuali della Roma di allora, si confronta con altri modi di liberare creatività e fantasia, altri mondi visionari come quello di Fellini, tra gli invitati fissi delle sue cene in Accademia.

Chiusa questa parentesi Balthus si traferirà in altre dimore appartate. La prima, in Italia è il castello di Montecalvello, che lascerà in eredità al figlio, che ancora lo occupa otto mesi l’anno, venerato come un mito dai pochi abitanti del borgo: il conte è arrivato, il conte è partito, di lui non si sa altro. Balthus padre lascerà traccia del suo passaggio in pochi schizzi che inquadrano con sobri tocchi alla Cezanne i solchi della valle dei calanchi, lo scorcio imponente di una torre in rovina.

Il pittore sente il peso degli anni. Le mani non governano più la matita. Deve rinunciare ai disegni preparatori cui era abituato. Li sostituisce con delle foto scattate con una Polaroid di cui la mostra espone, nella sua ricostruzione impietosa, un piccolo campionario. Ma non rinuncia a tirannizzare le modelle che continua a forzare in pose impossibili, urlando rimproveri se si azzardano a muoversi o sgranchirsi. Non può fare a meno di specchiarsi nella bellezza e nella giovinezza dei corpi. Ma non riesce più a farli parlare con la sua pittura. A fine mostra, lo spettacolo di alcuni quadri cui lavorava prima della morte, prestati dalla moglie Setsuko, risultano solo abbozzi rimasti incompiuti che cercano di mantenere l’impianto dei lavori più noti. Ma poi lo rinnegano con altre pennellate, macchie dense che cancellano i contorni dei corpi reclinati, colature che sporcano i bordi, pentimenti e correzioni rabbiose. Balthus è un pittore che sente di dover trovare, provare altre strade. È a un passo dal riuscirci: c’è in queste tele sofferte e martoriate un’impronta di verità e di vita fuori maniera che raggiunge il cuore e la pancia. Ma non ha più tempo per farlo.

È al tormento esemplare di questo vecchio, nuovo maestro in fibrillazione che il Grand Hotel del contemporaneo dovrebbe spalancare le porte. Trovargli ad ogni costo una camera con vista. Anche se lui non lo chiede. Non ha più forza né voglia di pretenderlo. Eccolo, si avvicina al bancone, senza tirar fuori il suo biglietto da visita, lascia in mano al custode un fascio di tele e di schizzi ancora freschi di graffite e colore. Poi volta le spalle e se ne va. Chi era? chiedono al concierge? Il re dei gatti, risponde.

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