A proposito de "L'arte espansa"
La bolla dell’Arte
Che cos'è arte? Tutti possono autodefinirsi artisti oppure è necessaria una mediazione critica, magari accademica? Mario Perniola mette il dito nella piaga del mercato della creatività
Il filosofo Mario Perniola ha recentemente dato alle stampe un saggio indispensabile per tutti coloro i quali vogliano occuparsi di arte e cultura: L’arte espansa (Einaudi, 2015, pp. 112, euro 11). Si tratta di uno sguardo totale sull’arte contemporanea, con occhio critico e sempre vigile di chi voglia mostrarne la grandezza e le contraddizioni, i cicli e gli approdi ultimi, i meccanismi d’inclusione ed esclusione. Dalle avanguardie storiche, il cui nume tutelare fu Marchel Duchamp, alla body art, dalla pop art alla Saatchi Gallery di Londra, dalla Fringe Art alla Art Brut, dall’Outsider Art al Situazionismo, dall’Insider Art alla svolta accademica, i confini tra ciò che rientra nell’ambito dell’arte e ciò che ne è escluso sono sempre più labili, il problema di base affrontato da Perniola è: «chi ha la legittimità e l’autorevolezza per operare questa metamorfosi?». «La bolla speculativa» che ha avvolto il mondo dell’arte, a partire da Duchamp, «è finalmente scoppiata». Tale universo ha attraversato una fase di transizione, segnata da diverse strategie autodifensive che hanno provocato una quasi totale indifferenza da parte del pubblico.
A partire dalla Pop Art, si è cominciato a diffondere il concetto secondo cui l’arte poteva esser fatta da tutti. Ciò ha generato non poche contraddizioni, in primo luogo l’opera si dissolve divenendo mero flusso comunicativo, in secondo luogo «questo mondo dell’arte si basava su un rapporto di intesa sia con la cultura più prestigiosa in termini di successo mediatico, sia con il capitale speculativo più ambizioso». In che modo, dunque, attuare strategie di inclusione ed esclusione? Da un lato era necessario dimostrare di proseguire il discorso iniziato dalle avanguardie storiche, contro il potere dei critici e delle accademie, d’altro canto poteva essere recuperata solo quella piccolissima parte di outsider che avessero accettato le regole di un gioco che «ha bisogno di novità e anomia ma solo entro i limiti stabiliti dal mondo dell’arte». Questa espansione dell’arte si muove dunque con un presupposto imprescindibile: l’efficacia del messaggio mediatico.
In tal senso, esperienza fondamentale analizzata nel libro è quella della Saatchi Gallery di Londra, «aperta nel 1985 con l’esposizione di Andy Warhol, Cy Twombly, Donald Judd e Brice Marden», giunge con la «mostra Sensation (1997, presso la Royal Academy of Arts di Londra)» a dare valore di artista a una larghissima fascia di persone: ciascuno poteva creare una pagina web con curriculum e opere, senza passare attraverso il giudizio della critica.
Tale tendenza di espansione, che strizza l’occhio al posthuman, trova poi ulteriore giustificazione e istituzionalizzazione all’interno della Biennale di Venezia del 2013, curata da Massimiliano Gioni e intitolata Il Palazzo Enciclopedico, con tendenze appunto enciclopediche di larghissima inclusione. Qui il filosofo riscontra un vero e proprio «cambiamento del paradigma circa cosa intendiamo per arte e per artista». Il titolo della Biennale del 2013 prende le mosse dal titolo di un’opera di Marino Auriti (1891-1980), che aveva costruito in modo dilettantistico un palazzo che avrebbe dovuto ospitare tutte le conquiste dell’umanità, dai manufatti all’avanguardia artistica, anche se lui «era del tutto estraneo al campo artistico, né avrebbe mai immaginato di essere solennizzato in questo modo».
Dunque, partendo da questa Biennale, Perniola analizza quella che definisce la svolta fringe dell’arte, dove tutto è incluso e tutto può divenire opera: le aziende agricole gestite come opere d’arte totale di Gianfranco Baruchello, le composizioni grafiche multisensoriali di Horwitz, i rituali, gli oggetti appartenenti al regno del sacro per popolazioni distanti, gli scarti, i rifiuti, le performance, i film, i mocumentary, le idee, i concetti, i singoli gesti.
Dunque si perviene a uno snodo particolarmente spinoso, che ha a che fare con la credibilità: «l’opera d’arte non è sufficiente a se stessa. Le poetiche, cioè i programmi d’arte che hanno accompagnato l’arte contemporanea, non possono più colmare questa carenza; tantomeno la critica d’arte, ridotta a cronaca o a promozione pubblicitaria. Le strategie artistiche devono lasciare il posto alle strategie teoriche».
Dopo questo punto di non ritorno in cui tutto è arte e nello stesso tempo nulla lo è, per cui l’arte sembra soggetta a una mutazione antropologica radicale che si volge implicitamente al proprio tramonto, Perniola individua una più recente svolta accademica. Ciò avviene a partire dalla Biennale di Venezia del 2015, diretta da Okwui Enwezor: si tratta di una risposta alla precedente Biennale, e assume subito un carattere anti-fringe, con l’obiettivo di riconferire legittimazione al mondo dell’arte separandolo radicalmente dal mondo della non-arte. Una svolta che ha un carattere colto e concettuale, là dove la giustificazione teorica appunto presuppone studi accademici e, implicitamente, l’appartenenza a una classe sociale piuttosto alta. «Per Enwezor, l’artista è chi ha compiuto studi regolari nelle scuole, nelle accademie, nelle università, ha ottenuto un riconoscimento mondiale ottenendo selezioni, premi, borse di studio, onorificenze, incarichi di docenza e curatele, infine è riuscito a collocare le sue opere in prestigiose gallerie e collezioni». L’immagine mediatica lanciata è quella del multiculturalismo, essendo presenti artisti come l’algerino Adel Abdessemed, l’afro-americana Adrian Piper, il cinese Qui Zhijie, ma si tratta solo di una facciata: tutti hanno compiuto i propri studi negli USA e nel Nord Europa o comunque i loro punti di riferimento sono americo-euro-centrici.
Se nella svolta fringe, che fa cadere le barriere tra l’Insider e l’Outsider Art, il rischio è quello di una svalutazione totale del mondo dell’arte, una progressiva scomparsa dell’arte come entità, in quanto dire che tutto è arte è pari a dire che nulla lo è e inoltre le capacità mediatico-comunicative dell’artista diventano prioritarie rispetto al significato dell’opera e all’opera stessa (se ancora di opera si può parlare); il rischio di quest’ultima Biennale, con la sua svolta accademica, si annida in un’idea eccessivamente euro-americo-centrica di arte e cultura, escludendo tutto un orientamento transculturale, in vista di una concezione del sapere di stampo neo-coloniale. C’è inoltre una contraddizione di fondo che Perniola mette in risalto, ovvero: «In Occidente il compito delle accademie e delle università sarebbe quello di fornire le armi concettuali e tecniche per distruggerle!»
All’interno del libro vengono affrontati tutti i passaggi che hanno portato dalle avanguardie storiche alla svolta fringe e fino all’ultima svolta accademica, con particolare attenzione ai discorsi circa l’inclusione e l’esclusione dell’alterità più consistente: la follia.
La questione se la follia potesse essere o meno una chiave d’accesso all’arte, è stata affrontata diverse volte, in particolare nei primi del Novecento. Qui vengono analizzate le due posizioni divergenti in merito: quella dello psichiatra Hans Prinzhorn (1886-1933), che riteneva esistesse una capacità creativa, una Gestaltung, nello schizofrenico ma che la sua negazione assoluta del mondo e della realtà rendesse impossibile a questo spazio creativo di trasformarsi in arte a causa dell’assenza totale di un qualsivoglia scopo comunicativo; e invece l’idea del tutto opposta, quella che fa capo al pittore francese Jean Dubuffet (1901-85), il quale ha teorizzato l’Art Brut, riunendo in una collezione le opere di pazienti psichiatrici, autodidatti isolati, etc., con un’idea di purezza, originalità e candore molto romantica.
Perniola prende in considerazione la divisione di Levi Strauss secondo cui esistono tre tipi di arte: l’arte colta, quella utilitaria e l’arte primitiva. Ammettendo dunque, con l’esistenza di quest’ultima, un tipo particolare di approccio all’arte: primitivo, pulsionale, rituale. Verso l’istituzionalizzazione e sistematizzazione della deriva si è andati quando dall’Art Brut si è passati all’Outsider Art e, in un momento ancora posteriore, con la svolta fringe dell’arte, la quale fa completamente cadere qualsiasi tipo di antagonismo, includendo ogni genere d’arte nel tripudio mediatico che trasforma tutto in comunicazione con una tendenza nichilistica.
In ultimo, L’arte espansa potrebbe configurarsi come una grande riflessione circa l’Essere e il possibile, il problema della legittimazione e della credibilità, i criteri di inclusione ed esclusione, l’annichilimento delle culture e la colonizzazione del pensiero ad opera di una forma sistematica e strumentale di matrice euro-americo-centrica. Un invito a non spaccare la realtà con l’accetta, a non classificare, non guardare il mondo da un’unica prospettiva ma, allo stesso tempo, a non cadere nell’orizzonte dell’indistinzione.