Intervista (via email) al grande poeta polacco
Il papavero di Zagajewski
«La poesia è stata un ingrediente costante della nostra civiltà per così tanto tempo che la sua scomparsa completa pare assai improbabile». Così ci rassicura il cantore che con i suoi versi trasmette la purezza della parola e una lezione di rara semplicità
Adam Zagajewski, oltre a essere senza dubbio il maggiore poeta vivente, è un poeta per elezione, come lo sono pochi nella contemporaneità. La strategia compositiva delle liriche, soprattutto nella seconda parte della sua opera, gioca sull’assenza di concettualizzazione, sull’abbattimento dell’ideologia, sulla dissoluzione della forma mentis per conquistare una più elevata leggerezza, capace di modulare l’indagine crivellante (e delicata) dell’essere, delle sue strutture e sovrastrutture, senza aggiungere inutili zavorre al pensiero. Gli oggetti sono percepiti nel momento in cui nessun osservatore può guardarli, tentando così di superare i divieti epistemologici della meccanica quantistica. La poesia che ne scaturisce, nuda e chiara, a larghi tratti straziante, si presenta come un capovolgimento del prospettivismo nietzschiano: nessuna totalità la tocca, nessun convincimento la intride, prevale l’impressione cruda della realtà non oggettivata, colta in un effetto di verità teofanica («Parlammo a lungo nella notte, in cucina;/ alla morbida luce della lampada a petrolio/ gli oggetti, incoraggiati dalla sua delicatezza,/ spuntavano dal buio, svelando i propri/ nomi: sedia, tavolo, saliera» – A mezzanotte).
Zagajewski (foto accanto, ©daniel malak) non è un poeta per bambole da pettinare; mira agli intellettuali, li raggiunge in volata, pur accogliendo con rara trasparenza una lezione di semplicità. La sua parola – “vola alta parola” – si dimostra elegante, misurata, mai gonfia di preteso spessore, consapevole del proprio ritmo e di un anelito all’universale, di un’intrinseca speculazione. Ciò fa sì che i versi non seguano l’iter preordinato di idee, non forzino, per così dire, la spontanea tensione della poesia a liberarsi da qualsiasi forza la tenga prigioniera, ma scelgano di posarsi in un terreno comprensibile e condiviso, da cui emerge la singolare finezza di un innamorato del bello, il quale aspira a configgere, al pari del più severo fenomenologo, sul muro della pagina e dell’immaginazione l’epoché degli oggetti.
Mistica per principianti, uno dei suoi vertici espressivi, è a questo proposito un compendio rigoroso di quella che definisco “trascendenza dentro il reale”, ovvero la capacità di allargamento del mondo sensibile a riprova della concretezza di taluni aspetti dello spirito: «All’improvviso compresi che le rondini/ in ricognizione/ con striduli richiami/ sulle vie di Montepulciano/ e i dialoghi sommessi degli intimiditi/ viaggiatori dell’Europa Orientale detta Centrale,/ e i bianchi aironi fermi – ieri, ier l’altro? –/ nelle risaie come tante monache,/ e il crepuscolo, lento e sistematico,/ che cancellava i profili delle case medievali,/ e gli olivi sulle basse colline,/ esposti ai venti e agli incendi,/ e la testa della Principessa ignota/ e le vetrate delle chiese come ali di farfalla/ cosparse del polline dei fiori,/ e il piccolo usignolo che si esercitava nella recita/ accanto all’autostrada,/ e i viaggi, tutti i viaggi,/ erano soltanto mistica per principianti,/ un corso introduttivo, prolegomeni/ di un esame rimandato/ a più tardi». Per Zagajewski la poesia, che assume la forma spigolosa di un prisma, «cresce sulla contraddizione, ma non la ricopre» (Ode alla molteplicità), perché la vita è un tradimento di per sé: nell’attimo in cui la si nomina, sparisce. Ciò a causa e a opera delle incursioni rapide e dolorose della trascendenza nel quotidiano. «La luce guarda l’ombra dall’alto, con indulgenza, forse con rimpianto» (La fanciulla di Vermeer). Klejnocki ha detto che la poesia di Zagajewski, più che epifanica, può definirsi epicletica, «non tanto dell’esperire un’illuminazione improvvisa e fugace, quanto dell’esperire un’anticipazione di tale visione, dell’aspirare a una trascendenza che pare attenderci. È quindi una prospettiva escatologica che dà senso all’esistenza e al suo vissuto».
Adelphi ha pubblicato nel 2007 l’appassionata raccolta di prose Tradimento (298 pagine, 30 euro), nella quale campeggia l’ipotesi del dualismo metafisico e di una patria “mentale”. Al 2012, sempre per lo stesso editore, risale invece la raccolta di poesie scelte, col significativo titolo Dalla vita degli oggetti. Poesie 1983-2005 (234 pagine, 20 euro). L’attenzione ai particolari diviene qui la cifra di ogni possibile evasione:«Abitiamo nella nostalgia, nei sogni si aprono/ serrature e chiavistelli. Chi non ha trovato rifugio/ in ciò che è vasto, cerca il piccolo. Dio è il seme/ di papavero più piccolo al mondo./ Scoppia di grandezza» (Kierkegaard su Hegel).
Come vede la poesia per il futuro? In Italia le maggiori collane hanno gravi difficoltà economiche e si paventa la chiusura di molte realtà editoriali, un tempo, prestigiose. Come poter diffondere, dunque, più capillarmente la poesia? Quali strategie culturali si possono adoperare per risollevare quest’arte che ha sempre più a che fare con una forma di “resistenza” contro il mondo freddamente economico?
«Poesia e futuro. Sono d’accordo con te – davvero la poesia è una forma di résistance, oggi. Viviamo un cattivo momento per la poesia e le ragioni che tu menzioni (l’indifferenza, il pensiero orientato al profitto, la cultura del divertimento e dell’intrattenimento, della musica rumorosa, etc.) sono certamente palpabili. La contemplazione non attira le folle. Ma cosa riservi il futuro, non lo sappiamo con certezza. Accade raramente che i cambiamenti che osserviamo oggi e di cui parliamo correntemente, vadano davvero al fondo della questione. Il futuro è imprevedibile e in ciò risiede il suo fascino. La poesia è stata un ingrediente costante della nostra civiltà per così tanto tempo che la sua scomparsa completa pare assai improbabile.Inoltre, non bisogna dare sempre e solo la colpa al pubblico. Ho paura che molti, troppi, poeti di oggi abbiano poco da dire, quasi nulla: non possiamo aspettarci che i lettori siano infinitamente pazienti e infinitamente attenti…».
La sua opera poetica è incentrata sul tema dell’ironia e dell’incanto, quali categorie espressive che privilegiano l’incontro con una verità più ampia. Che peso dà, nella sua ispirazione poetica, alla trascendenza, alla visita cioè di una realtà dilatata?
«È molto difficile per me parlare di “trascendenza” al di fuori delle mie poesie. Sto cercando di capire me stesso – ho certamente delle esigenze religiose e alcune delle mie liriche rispondono a esse. Non potrei respirare in un’aria di totale ateismo. È una cosa che riguarda l’esperienza, non la speculazione: mi sembra di sperimentare l’appeal della trascendenza; non tutti i giorni, non ogni settimana, ma lo sento vividamente. Tradurre ciò all’interno di una qualsiasi teoria o di una qualsiasi teologia è impossibile per me (benché privatamente ci provi, per comprendere meglio). La stessa poesia, non come una parte della letteratura ma come una falda quasi ontica del mondo, assomiglia sotto alcuni aspetti a quella che noi chiamiamo trascendenza».
In Tradimento parla della sua Leopoli. Quanto è importante per un poeta il tema della patria “perduta” e della lingua “abbandonata”? Anche in questo caso c’è un particolare nesso con il sovrasensibile?
«Beh, forse c’è una connessione libera con la trascendenza nel caso di Leopoli. È bella, è non-esistente, è differente. Qui non credo di preoccuparmi di qualsiasi restrizione concettuale. Forse, in prima istanza, ho scoperto la poesia attraverso la città perduta, attraverso l’osservazione degli anziani della mia famiglia, facendo costantemente riferimento a qualcosa che non possedeva alcuna presenza empirica, alcuna “realtà” – solo le ombre inquietanti di acquerelli e pallide fotografie. Ho serbato nella mente queste immagini, ero troppo giovane all’inizio per reagire a esse, ma più tardi ho trovato un’eco al mio modo di pensare».
E quando qualcuno moriva, il che purtroppo
accadeva anche in famiglia,
le mie zie tutte prese
dal lato pratico della dipartita
si scordavano del sacchetto di lavanda
e del suo ebbro, altruistico profumo
sotto un manto nevoso di lenzuola.
[Ringrazio di cuore il maestro Adam Zagajewski per la sua umanità, e il mio amico Riccardo Marchionni per l’aiuto prezioso al lavoro di traduzione inglese delle domande.]