Tra cronaca e filosofia
Davanti alla catastrofe
Simone Weil e Martin Heidegger, il bancomat e Kafka: guida (amara) al conflitto tra l'uomo e la natura stanca. In vista dell'ennesimo ciclone...
Si tranquillizzi chi legge gli articoli con l’occhio smaliziato e scettico del moderno intellettuale laico: ‒ non ho la minima intenzione di fare un discorso religioso-millenaristico e moralistico, invocando così il rinvio al Giudizio divino per l’imminente catastrofe che sembrva dovesse colpire il Messico. Tutti, credenti e non credenti, a partire dalla nietzschiana «morte di Dio» e dall’Olocausto, abbiamo ormai ben compreso che, se c’è un Dio e per giunta è anche vivo, Egli semmai sta esattamente nell’epicentro della sventura e del dolore. Ossia esattamente al centro dei centri del ciclone. Subendone così per primo le conseguenze e nel modo più crudele ed integrale possibile. È questo il senso della Croce. E questa fu del resto la lezione di Simone Weil quando (in Attesa di Dio) parlò del sofferente come di un nudo pezzo di carne insanguinato gettato in un fosso a margine della strada e meritante tutto il ludibrio dei sani e ben venturati. No! Semmai si tratta molto del totale restare attoniti davanti alla catastrofe tecnologicamente annunciata con scrupolosa puntualità.
Ancora più impotenti ed incapaci di capire che invece davanti alla catastrofe già consumata.
Ebbene, davanti a un’enormità come questa, si può comunque rifugiarsi nel linguaggio e più in generale nella scrittura. Pare che Vittorio Alfieri si soffermasse da poeta davanti alle rovine del terribile terremoto di Lisbona del 1755. Questo però avveniva dopo! Ora le cose stanno in modo molto diverso. E così in Portogallo ‒ forse per reagire in una qualche maniera sensata all’angoscia per il profilarsi inesorabile della fatale e terribile «Ereigniss» (l’«evento» quale essere che sempre ci sorprende, sul quale, sulla scia di Heidegger, hanno eretto una buona fetta della metafisica o anti-metafisica moderna pensatori come Lévinas, Marion e Derrida) ‒ ci si sta chiedendo se possa accadere una cosa del genere anche sulle coste di un Oceano ormai tropicalizzato anche alle nostre latitudini. È chiaro che si tratta un po’ di un chiamarsi fuori dalla sventura. Ma ciò è inevitabile, in quanto fatalmente «troppo umano». A Napoli facciamo esattamente lo stesso tutte le volte che, commentando i disastri che (chissà perché?) dovrebbero sistematicamente risparmiare la nostra città, diciamo con soddisfazione e perfino orgoglio patriottico: ‒ «Nuie, ‘cca stammo dinto ‘o ventre della vacca».
In ogni caso qui però ricorre comunque il tema del «giudizio ». Ma, dopo tutto ciò che abbiamo appena detto, questo può avvenire solo in un modo. E cioè attraverso una modifica radicale della relativa proposizione interrogativa. Non si tratta infatti dell’interrogarci circa un «da chi saremo giudicati?», ma piuttosto circa un «da chi siamo giudicati?». La questione si pone insomma nel presente, molto più che non nel futuro. E, chissà, forse è proprio questo il vero senso del concetto cristiano di Giudizio. Cioè il vero senso di una bene intesa escatologia.
Ed allora invece di perdere il tempo a chiederci «da chi saremo giudicati?», chiediamocelo infine «da chi siamo giudicati?». La cosa mi colpisce quando, nel mentre rimugino il cordoglio previo ed impotente per ciò che sta per accadere, mi cade sott’occhio una scena tipica del nostro civile quotidiano. Mentre se ne stanno in fila davanti alla banca signori e signore mediamente ben vestiti, anzi mediamente perfino eleganti ‒ con in più anche le relative colorite varianti : l’alto e canuto signore anziano con sbarazzino cappellino blu lana alla marinaio, il signore di mezza età con codino e vezzoso foulard vaporoso che sporge dal giubbotto pelle…‒, intanto se ne sta accoccolato a terra appoggiato allo stipite della porta il mendicante di turno. Un ragazzo di colore di cui si vede solo il volto nero spuntante dal cappuccio della giacca a vento rossa, nella quale mezzo morto di freddo se ne sta intabarrato.
Ebbene, è questo che ci giudica ‒ ora, oggi, e davanti alla solo presumibile Collera divina che intanto si abbatte sull’uomo dopo averlo invano più volte avvertito. Quel ragazzo, la colf tracagnotta con la larga faccia andina, lo smilzo badante srilankese con la scura ma serena faccia ed i capelli arruffati da santone, e l’altro badante con la faccia ispida da eritreo. Tutti serissimi, tutti pieni di un’immensa dignità e sconfinata rispettabilità (che dovrebbe rasentare di molto la necessità di un’incondizionata ammirazione e di un dovuto omaggio). Mentre, impenetrabili, se ne stanno raccolti nella loro quotidiana fatica e nel loro dolore. Chissà poi se davvero sempre con una speranza!
Noi invece abbiamo il problema di-prelevare-dal-bancomat-per-fare-shopping. Ed intanto ci lambicchiamo già la testa con l’idea di raccogliere danaro per fare la settimana bianca tra gennaio e marzo. Per poi doverli raccogliere di nuovo per il regolare viaggio esotico e le regolari ferie estive. Tutto di prammatica e senza alcun senso ‒ lo si fa nemmeno perché lo si vuole, ma solo perché tutti lo fanno. Dunque si deve! Per fare «status». Se no i nostri figli si vergognano e gli amici ci guardano pure male. È così che per davvero hic et nunc veniamo giudicati. Per direttissima e senza aver commesso alcun vero reato. Cioè molto peggio che nel «Das Prozess» di Kafka. Ed inoltre senza nemmeno alcuna sentenza, senza giurisprudenza, senza parole, nel più totale silenzio. Siamo infatti giudicati da quegli sguardi e quelle facce serissime, riservate ed impenetrabili. Che sanno solo una cosa : ‒ la vita va presa terribilmente sul serio!
Si, ancora oggi, nei tempi in cui esistono ancora società provviste di stipendi, pensioni, sicurezza sociale, shopping e bancomat!
Tutto ciò è ancora un sogno per così tanta gente. E forse lo resterà per sempre, visto che anche per noi stessi, le cose non sono più affatto così certe come lo erano appena due decenni orsono.
Lasciamo ora stare di chi è la colpa. Il fatto che è che, nel mentre in Messico stava per scatenare il finimondo ‒ probabilmente a causa del fatto che la Natura proprio non ne può più dei nostri piccoli e grandi piaceri e vizi (il «giudizio divino» centra davvero poco!) ‒ oltre che essere giudicati ora (hic et nunc) siamo anche giudicati tutti (urbi et orbi). Cioè tutti! Vengo giudicato io che penso parlo e scrivo come un insopportabile moralista, tu che credi nella libertà a tutti i costi (e la impreziosisci con codino e sgargiante foulard vaporoso), tu che sei un vecchio danaroso intollerante e di destra ma vuoi fare comunque ancora il ragazzino sportivo e sbarazzino, tu che trovi giusto parlare delle cruente orge sceniche di un Jan Fabre o di un Hermann Nitsch esattamente come di Filumena Marturano, etc. etc. Tutti irrilevanti (io per primo), quali frivole comparse e varianti superflue su un unico monotono tema. Il tema che quegli sguardi e quei volti hanno davanti in modo consapevole come ciò a cui non arriveranno mai e poi mai. Eppure lo stesso vivono lottando ogni santo giorno. Perfino non rinunciando a sperare. Ed inoltre, almeno tra di loro, ridono pure!
Ed ora ahimè, noi volenti o nolenti, l’uragano Patricia faccia il suo lavoro. Lo farà che noi lo vogliamo o no. E del nostro cordoglio se ne frega altamente.