Poesia: originalità di Monia Gaita
Tra cuore e terra
Spazi personali, invenzione frizzante, apertura a nuove esperienze linguistiche. Nel solco della memoria e delle emozioni. Con la sua settima raccolta di versi, la poetessa irpina si conferma una voce autorevole della poesia femminile italiana
Dallʼeditore Passigli ricevo un libro della poetessa Monia Gaita, di cui non conosco, oltre alla persona, la produzione poetica passata, ben sei raccolte. Ma di questo ultimo, Madre terra, conviene che dica, perché sicuramente si tratta di un lavoro prezioso. La Gaita evidenzia una scrittura assai originale, non compromessa con schemi abusati, siano essi un certo lirismo o una prosaicità che spesso incrinano la poesia. Ella si muove in spazi personali che si fanno, di volta in volta, adesione a una idea di diretta lettura, invenzione frizzante, apertura a spazi linguistici ulteriori, profondità di un sentire che rompe gli argini dellʼintimo cortile esistenziale. È bene sottolineare che la poetessa ha forza immaginativa e fantasia (è giusto usare questo termine, indispensabile nella poesia, ma non solo), che divengono tratti essenziali del suo dire poetico. Ciò non è poco e ci fa pensare a qualcosa di raro, tanto che lʼautrice, nonostante alcune espressioni a volte bisognose di maggiore moderazione, si può considerare una voce autorevole della poesia femminile italiana.
Le poesie della Gaita si irradiano in diverse direzioni: si va dallʼamore alla ricerca di un equilibrio interiore, da ciò che è più esposto al fuoco del disagio al tratto struggente dedicato a una nonna-mamma che diviene il trade union con la propria terra, Montefredane, il paese della sua vita, che è naturalmente il luogo dellʼanima. Discorso prevalentemente intimo il suo, ma mai abbassato a un tono minimo, ciò perché la poetessa riesce a fare di quella porzione personale una visione di vita che scavalca le limacciose timide acque del proprio sentire, per divenire infine un mare fluttuante che muove il mondo e genera una luce tellurica che sorprende il lettore.
Lʼamore è il versante dove la Gaita spazia maggiormente, una scrittura “giocata” su livelli di sofferenza o di stupore che incidono il suo occhio, in una rincorsa che mai si acquieta, e i versi, prevalentemente sostenuti da un forte ritmo, divengono un serrato confronto con la vita. Cʼè la necessità di parlare dʼamore e con lʼamore, o con gli amori, e il passo si fa deciso verso un magma che non può dare nessuna sicurezza. Forse questo è lʼequilibrio dellʼamore, che flette tra domande e domande, senza ottenere mai risposte adeguate («Mi chiedo:/ cosa rimane di noi due?/ Un parto di mistero/ cucito allʼorlo della tenda/ in fondo al buio»). Una universale condizione che non sfugge alla penna della poetessa, che fa di questo tratto una condizione esatta del furore e della pena («Non appassire, ti prego,/ il vetro di speranza/ che applico alla fronte»; «Ma io non posso appartenerti,/ lasciarti transitare/ sulle taniche del vuoto/ preso a morsi,/ tenerti/ nella trappola dʼun voglio/ travasato per errore»). Forse un lastricato di croci colma lo scenario che fa tremare e interrogare, che fa gioire e intristire, in una contesa infinita. Ma pure sottile si coglie una sensualità che sostiene il vento degli anni, sinuosa e dolce nel suo vortice di emozioni: «Entra/ dentro le gallerie nascoste che ti schiudo,/ torreggia sulle cime dellʼincerto,/ dammi una treccia dʼaria,/ una rampa celeste,/ una traversa umana./…/ e la tua lingua/ che arrotola la notte».
Si è partecipi, in una parte del libro, allo slancio verso una intimità familiare che si fa forza e bagliore, salvezza e speranza. E pianto. Ma un pianto che diviene abbraccio e consapevolezza di una testimonianza di vita che è il più grande dei sentimenti, dove cʼè più bellezza che dolore, perché, dice la Gaita, le tracce della propria origine, attraverso la nobile figura della nonna, sono il bene più prezioso da conservare, da proteggere, da difendere («vorrei affidarti/ la madre terra/ di questo mio superstite remare,/ struggersi e orma della neve,/ fiaccola dellʼorigine ferita,/ nel compiuto»; «Da quando non ci sei/ ti cerco/ dove lo sterno del melo/ sʼaffìlia/ al cerchio inevitabile/ dellʼape/ e sbuca nel ventre generoso/ dʼun bicchiere/ da cui bevo/ indizi di candela,/ striscia di tuono/ nel gancio delle vene»)). Come quelle per la propria terra (ma coincide di frequente lʼattenzione per le proprie origini familiari e la vicinanza alla sacra terra), sia pur essa il piccolo lembo che vive in una remota dimensione, lʼIrpinia, in un complicato incrocio geografico (testimoniato in alcuni libri da Franco Arminio, “paesologo» proprio di quelle terre), nel senso di una distanza abissale da dove scorre il centro forte della società, dellʼeconomia e della cultura (o come si diceva un tempo dellʼindustria culturale). Pensiamo alle piccole comunità prevalentemente agricole, con il loro incantato borgo, i residui di storia e di storie, di ricche vicende umane, dove tutto pare sospeso, pure il forzato abbandono di intere generazioni o la difficile situazione economica che scorre tra le case e le vie e le piazze di tanti paesi minuti e grandi, specie del Sud.
Lʼautrice rivendica questo paesaggio nel proprio sguardo poetico, con un amore candido e quasi misteriosamente stupefatto («È circondato il mio paese/ da una corona incalcolabile/ di venti crepitanti,/ una corona di spine,/ un corpo armato di stelle/ un ampio indizio/ di corse di cinghiali/ che impongono tributi di paura coagulata/ alle campagne»), nellʼesigenza di non cancellare la propria origine («Io venero quei corpi/ discesi dallo sterno dellʼinfanzia,/ che avvampano/ da un argine invisibile,/ un ventaglio,/ un miele vergine/ nel ventre della Terra»), quella terra dove scorre il battito forte di una superiore verità, dove vige quella lentezza del tempo («al largo delle coste dei rumori/ dʼaltri luoghi») che forse è il valore più autentico della vita. La madre terra, quellʼentità sacra, quel respiro umano che diviene un respiro religioso e che cammina nei secoli accanto al suo riflesso storico, cioè la miseria atavica che lʼaccompagna. Monia Gaita la riporta attraverso il racconto, penso attualizzato, di Gesù: «La gente,/ con mani ruvide e incrostate,/ entrava dalla porta di servizio/ a un nuovo cielo/ dove lʼinverno/ in un epilogo imprevisto/ desse fiori/ e il passo elastico del mare/ e dei suoi frutti», e che rammenta la frase storica che ricorre nella disperazione degli indigeni sudamericani: «il dominatore mangerà la tua povertà».
La memoria, lʼemozione partecipata di vite e luoghi, il dono sempre inseguito dellʼamore divengono in questo libro di Monia Gaita, una sensazione di conoscenza e di affetto («Tu sei/ dentro la disciplina dei filari dʼuva nera»), di condanna e di salvazione, comunque qualcosa che parla del nostro passato e del nostro presente, del correre del tempo, della profonda visione della storia. La storia di un respiro creativo che giunge leggero e nitido, suadente e cupo, una danza vestita di terra, quella sacra e irrinunciabile del proprio cuore.