Cronache musicali da Bucarest
Nel nome di Enescu
58 produzioni in 22 giorni, con la partecipazione del Gotha del concertismo mondiale. 28 mila gli spettatori accorsi quest'anno al Festival intitolato al grande violinista e compositore romeno. Che si impone come uno dei massimi appuntamenti internazionali
Il primo aspetto che stupisce è la straripante presenza di pubblico, in ogni concerto. Sorprendente, perché va detto subito che ogni giorno sono in cartellone più spettacoli, da un minimo di due a punte di cinque, e talvolta in concomitanza! In media, gli appuntamenti sono tre al giorno, per lo più dal pomeriggio a tarda notte. Ma proprio l’occasionale simultaneità ci fa capire che questo pubblico non è sempre lo stesso, e che siamo di fronte a pubblici diversi, per programmi diversi. Bellissimo, comunque, vedere le sale così gremite. Ben 58 produzioni in 22 giorni, con la partecipazione del Gotha del concertismo mondiale, hanno caratterizzato questa ventiduesima edizione, ormai conclusa, del Festival George Enescu, che attualmente si tiene ogni due anni a Bucarest. Nato nel 1958 per celebrare il grande violinista e compositore romeno (1881-1955), negli ultimi decenni il Festival Enescu è cresciuto al punto da imporsi tra i maggiori appuntamenti internazionali. E ormai, per nomi e qualità di proposte, fa capolino accanto alle massime manifestazioni internazionali, quali Lucerna, Salisburgo, Bbc Proms di Londra, Aix-en-Provence. Non a caso la rassegna è fortemente sostenuta dal governo romeno, che ha erogato sei degli otto milioni di euro, costituenti il budget di quest’anno.
Impressionante la qualità dei complessi e dei solisti coinvolti. Un giorno via l’altro, si ascoltano molte delle maggiori orchestre sinfoniche: Berliner Philarmoniker, Wiener Philarmoniker, Concertgebouw di Amsterdam, London Symphony, Staatskapelle di Dresda, Filarmonica di Pietroburgo, Filarmonica di Israele. Le prime quattro, secondo la rivista inglese Gramophone di aprile, classificate al momento come migliori del mondo. Ma poi trovate ancora: San Francisco Symphony, Bayerisches Staatsorchester, Filarmonica di Monte-Carlo, e via continuando. E i gruppi di musica antica? Tutti i più noti, per la gioia degli appassionati. Meglio sorvolare, infine, sul nutrito elenco di grandi direttori e grandi solisti.
Bucarest trasmette l’impressione di città un po’ dimessa ma ordinata, gradevole, pulitissima, ricca di verde e di parchi ben tenuti. Ed è stata forse proprio questa modestia di risorse a salvarne finora una diffusa presenza di villini e di edifici d’epoca, di gusto ottocentesco e mitteleuropeo, tra i quali purtroppo appaiono brutti palazzoni popolari e di stile sovietico. La maggior parte delle costruzioni di pregio attende ancora il restauro, ma chi è già stato nella capitale romena afferma che i lavori di recupero, avviati negli anni scorsi, procedono sistematicamente. Certo, gli edifici già rimessi a posto fanno una gran figura, così come le frequenti chiese di rito ortodosso, ricche di affreschi e di suggestione. Pedonalizzato il piccolo centro storico, colpito anch’esso dal flagello di innumerevoli locali, più o meno tipici, di varia ristorazione, che hanno presumibilmente soppiantato, come ovunque, molte attività artigiane.
Folto pubblico per ogni appuntamento, s’è detto, con una crescente presenza di spettatori stranieri che, dai 16 mila del 2011 ai 20 mila del 2013, hanno toccato quest’anno le 28 mila unità, provenienti soprattutto dal Centro Europa, e attratti dal favorevole costo della vita e dei biglietti d’ingresso. Due le principali sale da concerto: l’Ateneul Român, magnifico edificio neoclassico a pianta circolare, eretto nel 1889 e sede di concerti da camera con i suoi sei-settecento posti, e la grande sala del Palatului, di stampo sovietico, capace di quattromila posti. Nell’Ateneul Român salta subito agli occhi un particolare che ci ha riportato indietro di decenni, e che i nostri teatri hanno dimenticato, stretti dalle norme sulla sicurezza: una profusione di sedie aggiunte in ogni minimo spazio o corridoio libero, peraltro già da sé molto ridotti. Sicché il deflusso, negli intervalli e alla fine, è di una lentezza incredibile, esasperante; né si vede l’ombra di un vigile del fuoco… Anzi, proprio sotto il palcoscenico, nello spazio di passaggio e tra i piedi degli spettatori in prima fila, spiccano bene in vista matasse di cavi elettrici, con fili che corrono senza adeguata protezione, qua e là giuntati o ricoperti con nastro isolante, anche lungo i corridoi …
All’Ateneul Român, in due giorni consecutivi abbiamo ascoltato Murray Perahia ed Elisabeth Leonskaja. Il pianista statunitense ha introdotto con due pagine di Haydn, la Sonata n. 31 e le Variazioni in fa minore, nelle quali sono subito riaffiorati il suo tocco limpido, trascolorante, e il suo fraseggio ordinato e pensoso. Da un lato emergono nitidi gli ingranaggi compositivi, dall’altro un clima interpretativo di trasparente nobiltà. Una resa impeccabile, alla sua maniera. Nei successivi cinque pezzi brahmsiani dagli op. 116, 118, 119, Perahia muta registro espressivo. Sempre calda, intensa, misurata, la sua esplorazione degli snodi strutturali non ha tuttavia lumeggiato abbastanza le tinte crepuscolari e le sfumature proprie di queste pagine più libere. Nella Sonata op. 106 di Beethoven, la monumentale Hammerklavier, invece l’atteggiamento introspettivo e indagatore di Perahia lo ha condotto a toccare esiti memorabili. Del tutto differente l’approccio interpretativo della Leonskaja – allieva di Sviatoslav Richter al quale il suo concerto è stato dedicato – che nello Schubert della Sonata in re maggiore D850, Gasteiner, ha rivisitato l’humus schubertiano, attingendo a un caleidoscopio di finissime suggestioni. Ecco quindi uno Schubert sorprendente per l’appassionato calore di slanci, evocazioni, mezze tinte, impeti, abbandoni. Molto moderno, per la verità, al punto da fargli sembrare coevo il successivo Brahms della Sonata n. 3 in fa minore op. 5, disegnato invece in una cornice più sorvegliata.
Nella grande sala del Palatului, all’altezza della storica fama l’esibizione della Staatskapelle di Dresda, sotto la bacchetta di Christian Thielemann, in un programma interamente straussiano. Nei Quattro ultimi Lieder, soprano Anja Harteros, con l’aggiunta di Malven in un’orchestrazione di Wolfgang Rihm, pulsavano le suggestioni più intime, decadenti, nostalgiche. Suggestioni contrappesate dalla successiva Alpensinfonie, intensa nella compatta organicità di lettura del direttore tedesco, ma altrettanto espressiva nei momenti poetici. Molto notevole, il giorno dopo, la levigatezza, l’omogeneità, la leggerezza di suono della San Francisco Symphony Orchestra, che il direttore Michael Tilson Thomas ha condotto con essenziale sobrietà in un’elegante Sinfonia n. 1 di Mahler, lontana dai soliti clangori, e a volte caldamente intima. Nella prima parte della serata, il direttore americano aveva accompagnato, con intenzione misurata e sicura, la pianista cinese Yuja Wang nel Concerto n. 2 in sol maggiore di Bartók. Ne è emersa un’esecuzione febbrile, acutamente comunicativa ma trasparente, seguita, per accontentare le richieste di bis rivolte alla pianista, da due spiritose variazioni, l’una sulla Marcia turca di Mozart, l’altra sull’Habanera della Carmen.
Concludiamo, per dare l’idea di due connotati di questa rassegna – l’ampio ventaglio di eccezionali proposte e la straordinaria voracità dei molti pubblici che essa raggiunge – citando la pregevolissima esecuzione, in forma di oratorio, dell’opera Catone in Utica (1728) di Leonardo Vinci. Esecuzione proposta dal complesso strumentale “Il pomo d’oro”, per l’occasione diretto dal giovane russo Martin Emelyanychev, dal gesto inutilmente enfatico – ma per fortuna orchestrali e cantanti conoscevano a fondo la musica, incisa anche in cd – in sostituzione della bacchetta titolare di Riccardo Minasi, impedito da forza maggiore. Quattro ore di spettacolo, dalle 22.30 alle 2.30, hanno inchiodato una sala di irriducibili appassionati della musica barocca a un’interpretazione che ha messo in rilievo le doti di un parterre di voci, nel quale spiccavano ben cinque controtenori. E tra questi, si sono distinti l’argentino Franco Fagioli, il croato Max Emanuel Cenčić, il sud-coreano Vince Yi.