Una cantante oltre il mito
La storia di Amy
«AMY, the girl behind the name», il film di Asif Kapadia su Amy Winehouse, entra perfettamente nelle pieghe della tragedia di una ragazza che cantava sull'orlo di un burrone
Presentato a Cannes 2015 (sezione Proiezioni speciali) AMY, the girl behind the name è un lavoro superlativo sotto tutti gli aspetti che compongono un film… Già, ma è un film, questo? La pellicola viene presentata come documentario biografico, ma l’opera in questione del regista anglo indiano Asif Kapadia sfugge sia alla definizione di documentario che a quella di film e anche a quella (attualmente molto in voga) di docufilm.
Nei 128 minuti di proiezione, AMY esprime una rara potenza di narrazione e la sua forza nasce proprio dal fatto di esprimersi con un doppio corpo, ovvero con la duplice fisionomia del documentario che trasmuta in film e viceversa, con la Winehouse attrice inconsapevole nel set della sua vita già nei primi filmati amatoriali, realizzati dal non amato babbo, che sprigiona un’ animalità musicale e da palcoscenico fuori dal comune.
«La brava ragazza ebrea di North London» come si definisce lei stessa in una telefonata al suo adoratissimo fidanzato Blake Fielder-Civil, ha una biografia talmente nota (e breve…) che forse è inutile raccontarla e il film stesso non è il semplice racconto della vita di una giovane, grande, cantante che aveva il destino già scritto con alcol e droga come compagni di viaggio, argomento sempre forte e di grande appeal. Sullo stesso tema ci sono già decine di storie raccontate e ambientate nel gran teatro del rock da altri suoi predecessori, tutti stroncati a ventisette anni e perciò annessi al tristemente noto Club dei 27 tanto enfatizzato dalla stampa, un circolo frequentato da Jimi Hendrix, Janis Joplin, Brian Jones, Jim Morrison, Kurt Colbain….
L’intelligente regia/assemblaggio di Kapadia, accompagnata da un montaggio perfetto di Chris King, si muove in un altro senso: trascina il racconto proprio dentro la tragedia del personaggio, muovendosi però su registri diversi, ovvero quando lo spettatore legge didascalie intervallate a interviste, si trova nella grammatica del documentario, però quando l’obiettivo entra nelle pieghe più intime della vita quotidiana della Winehouse, si ritrova invece affascinato in una fiction dove la protagonista è una attrice travolgente, grande interprete di tenerezza e disperazione. Ma se storia deve essere, allora è la storia filmata da dentro di come una ventenne assolutamente disarmata di fronte a un successo di dimensioni planetarie, viene masticata da questo fenomeno assolutamente fuori di ogni scala umana: fisica, emozionale e psicologica. «Se morissi domani, sarei una ragazza felice», parole da tragedia shakespeariana, da personaggio mosso dai fili neri di un fato che dà tanto ma toglie tutto.
La musica che Amy Winehouse proponeva scavalcava tutte le definizioni; se nasce come cantante jazz, subito si propone tra le coloriture del R&B, soul, pop, reggae, e con la massima naturalezza passa da un genere a un altro annullando ogni differenza, in esibizioni dove ciascun brano diventa musica e basta, proposto col suo modo innocente e disordinato di porsi dietro al microfono e davanti ai musicisti (straordinari) che l’accompagnano e spesso sembrano anche proteggerla, in particolare il gigantesco Salaam Remi. Musicisti che sembrano angeli che non solo suonano (arredano) impeccabilmente la sua musica ma sono consapevoli di stare assistendo alla caduta di uno di loro, perché Amy Winehouse, per tutto il film, è un angelo che sembra camminare sul crinale di un burrone, guardando continuamente giù in basso… Straziante la scena del concerto a Belgrado, dove la attendono e la acclamano migliaia di fans, che quasi la invocano come si fa aspettando l’uscita di un’immagine sacra da un tempio; migliaia di giovani freddati in un istante dal loro stesso mito che entra in scena barcollante, stordito e ubriaco, che non riesce a cantare una sola canzone di quelle che loro aspettavano di godersi mescolando amore e ammirazione… Ma ad una divinità non si perdona l’incapacità di fare miracoli, così le voci di ammirazione si cambiano presto in ringhi di rabbia e delusione.
AMY una ragazza dietro il nome forse non è un gran titolo, ma è senz’altro giusto: perché il lavoro di Kapadia ci porta proprio dietro il paravento spaventoso dell’icona, Amy Winehouse è una tenera ragazza insicura della middle class inglese, canta benissimo, sul palco non balla e non ha forme provocatorie e sensuali da proporre e, se porge le spalle, scopre il tatuaggio di Betty Boop, si tormenta i capelli mai a posto e la vita le regala un successo enorme, tutto sommato neanche troppo sudato. Ma la ragazza Amy sparisce, diventa mito, icona per migliaia di giovani, una storia già vista più volte nella storia della musica pop, che dagli anni sessanta coniuga musica/fama/mercato, con quest’ultimo a dettare i tempi e i modi di vita e di lavoro. Ma in natura non esiste un successo (in qualsiasi campo, neanche nell’arte venatoria!) tarato per milioni di persone sparse per l’intero pianeta: la carità della tecnologia invece permette di amplificare a dismisura la voce umana, il suono tenue di un’arpa, una piccola incisione a inchiostro, gli occhi di una pulce… A queste dimensioni, se non si hanno anticorpi del tipo giusto, l’icona riproduce sé stessa, diventa icona dell’icona e si avvita in una spirale che –quasi sempre- ha una sola via d’uscita, quella che il Club dei 27 ben conosce. Amy Winehouse non sembrava cercare il successo, è questo che l’ha braccata e l’ha sottomessa alle sue regole e ai suoi sacrifici.
La vita privata svanisce di fronte alla bulimia dei flash che non permettono alla Winehouse di uscire di casa, di mantenere un atteggiamento di dolore o di gioia che sia suo e basta. Su questo versante, forse Kapadia intinge troppo il pennino nell’inchiostro della disperazione di Amy; per lui, regista, è stato sostanzialmente un lavoro di raccolta di memorie e di assemblaggio e montaggio attingendo da centinaia di ore di repertorio di alta qualità, che ha poi plasmato per consegnare un suo ritratto di Amy Winehouse. Questo narrare illuminando di luce plumbea la vita della protagonista, non s’interrompe neanche nelle sequenze in cui lei vive innamorata e (forse) felice o quantomeno appagata dai suoi due grandi amori: il fidanzato Blake e la musica.
Emoziona un importante episodio del 2008, quando ad Amy Winehouse era stato negato il visto per gli Usa (persona non gradita) impedendole così di partecipare alla serata di consegna dei Grammy Awards a Los Angeles (ne vincerà ben otto!); lei sarà ugualmente presente con un collegamento a distanza da uno studio di Londra, dove assiste alla cerimonia insieme ai genitori e alla sua amica del cuore e quando poi su uno schermo vede che in collegamento c’è anche il grande crooner Tony Bennett, impietrita per l’emozione si rivolge al padre balbettando: «Guarda papà… c’è Tony Bennett!» con il tono di una bambina che scopre che Babbo Natale esiste davvero, come pensava. La scena successiva li vede duettare insieme in uno studio ed è commovente sentire quante volte Amy gli ripeta, come una nipotina all’anziano zio, che lui è sempre stato il suo idolo e si scusa se fa ripetere più volte il brano che stanno registrando perché lei sbaglia dei passaggi. Bennett le è vicino con paziente tenerezza, sorridendo la tranquillizza, ma sembra quasi sbirciare nel destino di quella grande artista (e fragile ragazza) che ha davanti e che mette sempre i piedi fuori dalle righe del pentagramma della vita, ma non da quelle dello spartito musicale. Più tardi, nel film, lo stesso Bennett dirà che «Il nome di Amy si dovrebbe scrivere accanto a quelli di Billie Holiday, Sarah Vaughan, Ella Fitzgerald…».
Le ultime sequenze del film riguardano il pomeriggio del 23 luglio del 2011: Amy Winehouse, la ragazza ebrea di North London è morta stroncata dall’alcol, ne ha assunta una dose esagerata dopo un periodo di astensione; nel momento in cui la ragazza Winehouse muore, la cantante Amy scolpisce ancor più forte il suo nome come icona nel pantheon dei miti, là dove alzano gli occhi milioni di giovani che in lei si identificano. Dall’appartamento di Camden Square a Londra, esce una lettiga con il corpo di Amy Winehouse coperto da un telo rosso scuro; il passaggio è da sinistra a destra dell’ inquadratura verso una macchina nera che aspetta; la memoria schizza, emozionata, a una sequenza in bianco e nero di un’estate di mezzo secolo prima: una lettiga, che trasporta un corpo avvolto in un lenzuolo, si muove da destra a sinistra dell’inquadratura, viene spinta verso una macchina nera che trasporterà il corpo di Marilyn Monroe.