Una vittoria per l'arte
La Roma di Kentridge
Via libera, finalmente, all'installazione di William Kentridge: un’ottantina di figure alte dieci metri ritagliate con getti d’acqua vaporizzata sulla patina scura di smog, sulla banchina del Tevere accanto a Ponte Sisto
William Kentridge l’ha spuntata. Il gigantesco fregio sui muraglioni del Tevere che il grande artista sudafricano aveva disegnato e ideato e che un inspiegabile veto dei tecnici delle Belle Arti era riuscito a bloccare per un paio d’anni, si farà. Il via libera ufficiale è arrivato la settimana scorsa, ma era già stato anticipato dalla sontuosa passerella che il Ministero aveva concesso al progetto riservandogli una sala del Padiglione Italia della Biennale di Venezia. Tra qualche giorno la folta troupe, un centinaio di persone, che darà vita all’operazione, si metterà al lavoro. E la data del taglio del nastro è già fissata, il prossimo ventuno aprile: sarà l’evento clou delle celebrazioni del prossimo Natale di Roma, sigillato da uno spettacolo di luci che metterà in movimento la sequenza di sagome e personaggi inventata da Kentridge. E da un concerto intinerante su musiche composte per l’occasione da un suo collega sudafricano Philiph Miller: un collage di ritmi popolari provenienti da tutto il mondo, dalla tarantella al reggae, eseguito da due processioni di strumentisti di vari paesi che sfileranno sulle banchine tra ponte Sisto e ponte Mazzini.
Ombre che faranno da contrappunto alle ombre scure del fregio: un’ottantina di figure alte una decina di metri ritagliate con getti d’acqua vaporizzata sulla patina scura di smog che si è depositata sul marmo. La stessa tecnica di ripulitura che si usa per le superfici lapidee dei monumenti, qui utilizzata con un ribaltamento di senso e di scopo, non per cancellare lo sporco ma per trasformarlo in segno. Un’inversione ottica che deve aver frastornato i tecnici che per primi hanno esaminato il progetto e hanno finito per bocciarlo, schiavi di un’ottusa logica di conservazione che da sempre punta a mummificare la storia di Roma. E ne ha perpetuato i vizi di sottogoverno , corruzione, inerzia. Ma è possibile che a infastidirli e a spingerli verso il veto, rimosso per fortuna con il subentrato in carica di altri esperti, siano stati altre due caratteristiche che dànno anima al progetto.
La prima, riassunta dal titolo impresso all’istallazione, Triunphs e Laments, “Trionfi e Lamenti”, è che nel rendere omaggio a Roma e al suo eterno fascino di capitale dell’Impero e dei Papi, Kentridge ha scelto di rileggerne la Storia con occhio d’artista, come un ininterrotto alternarsi di vittorie e sconfitte, conquiste e cadute, luci ed ombre. Un corteo di scene e figure riprese dall’iconografia popolare e sgranate senza ordine cronologico a cucire una lunga trama che dalla città di Romolo arriva sino all’idroscalo di Ostia anni Settanta , teatro della morte di Pasolini, che dal martirio di Attilio Regolo balza al bagno di Marcello e Anita nella fontana di Trevi. Insomma una Roma di fasti e di miserie, di glorie e di delitti dove le figure della Vittoria alata appaiono nella loro versione classica come quinte a raccordare le varie scene e poi ricompaiono con il volto deformato a ricordarci che dietro ogni trionfo c’è una perdita, a volte un intermezzo d’infamia. Una visione dunque sempre in bilico che lega insieme vizi e virtù e rifiuta il teorema dell’enfasi, dei giudizi frettolosi e sommari, in controtendenza con quanto avviene oggi in Italia e non solo. Facile scambiarla per un oltraggio al prestigio di Roma.
Ma forse ha pesato ancor più su quel verdetto di stop, altrimenti inspiegabile, un altro fattore, un altro motivo di «scandalo». Il ritorno prepotente in scena dell’effimero, un fantasma che molti benpensanti credevano di aver esorcizzato per sempre con la scomparsa di Renato Nicolini che ne aveva fatto un perno della sua strategia culturale, e la trasformazione in noiosa routine degli appuntamenti delle sue estati romane. Nulla di più effimero, infatti, dell’opera di Kentridge, un messaggio scritto con inchiostro simpatico, destinato a scomparire col tempo, quando lo smog tornerà a impadronirsi di quella lavagna sul Tevere e a oscurarla di nuovo. Quanto tempo? Difficile dirlo. Le prime prove dell’operazione, un campione di sagome di lupe capitoline tracciato come test tre anni fa, sono ancora lì, un po’ più sbiadite ma ancora leggibili. Probabilmente una decina d’anni. Ma è un effetto calcolato, questa resa al tempo che scorre e avvolge ogni cosa, anche i prodotti dell’arte. Immaginare un’opera che si autodistrugge, ed offrirne la sua fine più o meno prevedibile ma inesorabile come essenza stessa dello spettacolo, significa drammatizzare , portare al limite questa visione del tempo che non è certo una resa. L’opera d’arte che si trasforma in teatro, conosce come durata solo l’intervallo della rappresentazione. E affida la sua permanenza alla responsabilità, al gusto, alle emozioni dello spettatore: non all’oggettività del museo ma alla soggettività che ne rileva il significato e continua a lavorarci su.
Comprensibile che ad arrivare a questo traguardo, che mette al bando ogni illusione d’immortalità sia un autore come Kentridge che pratica nei suoi lavori cinema, teatro, regia come estensioni dei suoi disegni, che sono quasi sempre il punto di partenza, e interagiscono con altre discipline, innescano lo stimolo di altri sensi, rendono dinamico lo stesso atto della vista. Sposano insomma l’effimero, gli attribuiscono responsabilità, effetti, stimoli che si prolungano nel tempo, incidono e trasformano la coscienza personale e collettiva.
Su questa filosofia Renato Nicolini, ribattezzato appunto con battuta sprezzante re dell’effimero, impostò la sua strategia culturale, che ha lasciato traccia indelebile nella memoria. E reso sicuramente più vivibile, più ricca di sapori ed esperimenti di convivenza la Roma fine anni Settanta. Gli rimproverarono di non pensare al permanente. Critica miope e ingiusta perché è alla spinta di quella vivacità culturale condivisa da grandi folle metropolitane che si deve la nascita di strutture, luoghi, musei che hanno offerto a Roma una dotazione in grado di competere con altre capitali. Una rete di offerta che è entrata in crisi, vacilla di fronte alla crisi, e non solo perché mancano fondi. Mancano idee piuttosto, stimoli che trasformino i desideri in bisogni irrinunciabili. Insomma manca l’effimero.
Prendete il progetto di Kentridge, quel gigantesco schermo di figura che torna a richiamare l’attenzione su uno spicchio di Roma dimenticato e maltrattato, il Tevere. Gli ridà vita e genera la voglia, il bisogno che continui a vivere, a catturare sguardi, a suscitare emozioni, nuove idee com’è negli intenti dell’associazione Teveterno, che ha promosso l’iniziativa, trovato sponsor a sostenerla e intende promuoverne altre dello stesso valore per fare di quel tratto di banchina così centrale, così malmesso, una galleria d’arte a cielo aperto. Certo, un progetto effimero. Investimenti che potrebbero non aver seguito e non dare ritorno. Come se fosse solo questo il compito dell’arte, specie di quella contemporanea. È contro questa scommessa di vitalità che un’istallazione così fascinosa e un’operazione di recupero urbano così importante ha rischiato d’incagliarsi, innescando il divieto dei paladini del permanente. Blocco superato stavolta, ma la truppa dei farisei è sempre in agguato.