Un libro di Skira
La fotografia scritta
Una raccolta di racconti curata da Walter Guadagnini testimonia il rapporto, non sempre conflittuale, tra letteratura e fotografia. Da Poe a Italo Calvino
Assodato il fatto che l’invenzione della macchina fotografica sia stata una delle più importanti fatte dall’uomo, è meno nota l’influenza che ha avuto nella letteratura. Fotografi e letterati, salvo eccezioni, non si guardarono mai in cagnesco. Nel 1838 il dagherrotipo fu ufficialmente presentato all’Accademia delle Scienze di Parigi. Soltanto un anno dopo Edgar Allan Poesie gli dedicò un saggio, definendo questo apparentemente diabolico strumento “indubbiamente il più importante trionfo della scienza moderna, se non più il più straordinario”. A poco a poco, la fotografia e il fotografo diventeranno soggetti nuovi all’interno delle opere letterarie, fornendo così ai narratori una materia prima assolutamente inedita. All’influenza dello “scatto” sull’inventiva letteraria, l’editore Skira ha dedicato un’accurata antologia di racconti (a cura di Walter Guadagnini) intitolata Racconti dalla camera oscura (197 pagine, 15 euro).
Nel 1851 Daniel Hawthorne in La casa dei sette abbaini ingloba nelle sue pagine la fotografia. Un cronista inglese, a proposito di un’invenzione partorita dall’ottica e dalla chimica, quindi teoricamente “condannata alla non artisticità”, accennò a una “pratica magica”, singolare frutto della negromanzia. Scrittori come Hardy e Pirandello, scrive nella prefazione Guadagnini (uno dei più autorevoli storici della fotografia) considerarono immediatamente la camera oscura avente come scopo narrativo “di sostituire la persona, di prenderne letteralmente il posto, assumendo il ruolo della maschera nelle cerimonie sacre”. L’intrusione del ritratto non originato dal pennello, fa sì che in un racconto di Hardy una signora, ammantata da un certo bovarismo, finisca per essere messa incinta dal ritratto “chimico” di un inesistente amante. Su questa scia, si devono collocare gli scritti di Bioy Casares, Cortàzar e Calvino (di cui diremo dopo). Singolare comunque il fatto che, in base al rapporto fotografia e letteratura, nei racconti ottocenteschi l’immagine non prenda vita, ad eccezione di M.D. Conway in La mia parte perduta, 1862).
Dal Castello di Otranto di Hawthorne al Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde, fino a La venere d’Ille di Mérimée, il ritratto, così come la scultura, è in un certo senso ancora privo di storia pregnante. Personalmente ho molti dubbi interpretativi sull’opera di Wilde. Il ritratto comunque viene considerato un’arte a tutti gli effetti. Da sottolineare poi una frase-esclamazione: “È vero! L’apparecchio non può sbagliare”. Il che è stata fonte di numerose menzogne fotografiche del XIX e del XX secolo. Mettiamo a confronto un racconto di Maupassant e uno di Hary. “Nel primo caso – annota Guadagnini – si tratta di un’identificazione, dove la fotografia esplicita tutto il suo valore documentario, mentre nel secondo si tratta di un’interpretazione, per giunta falsa, dove la fotografia rivela tutta la sua natura di strumento generatore di linguaggio ambiguo, impossibile da definirsi attraverso una delle sue caratteristiche.
Abbiamo accennato prima a Italo Calvino, che fu critico sugli effetti dello scatto nel 1955, salvo poi, 1970, assumere un atteggiamento fantastico, complesso e articolato sui fotografi attivisti e marcatamente ossessionati dalla camera oscura. L’autore di Palomar e di Se una notte d’inverno… compare in questa raccolta dell’editore Skira con il racconto L’avventura di un fotografo, 1970. È la storia, umanamente contorta e intimamente ossessiva, dell’impiegato Antonino Paraggi, “non fotografo”. Anzi derisore dell’abitudine di farsi immortalare da una scatoletta in ferro e plastica. Sfiorando prima e approfondendo poi sentieri filosofici, Antonino sul nesso iconografia-famiglia-follia passa da considerazioni sbrigative (lo scapolo, scrive a un certo punto, è necessariamente fuori da questo cerchio: il “selfie” non era ancora dilagante prassi). Successivamente, ammette che “l’unico modo di agire con coerenza è di scattare almeno una foto al minuto, da quando uno apre gli occhi al mattino a quando a va dormire: solo così i rotoli dei pellicola impressionata costituiranno un fedele diario delle nostre giornate, senza che nulla resti escluso”. Un’ossessione classificatoria che ricorda da vicino le pagine di Louis Jorge Borges.
Antonino accusa i fotografi della domenica di “uccidere la spontaneità, allontanando il presente”. Il nostro impiegato, attratto sulla mutevolezza delle nostre giornate, mette su un laboratorio, “un rifugio da struzzi”, arrivando a pensare di poter fissare con l’obiettivo anche i sogni. Assecondato in modo divertente dall’amica Bice, la trasforma in modella della propria esistenza. La vuole in abito da sera, “con la scollatura che segna il confine netto tra il bianco della pelle e lo scuro della stoffa sottolineato dal luccichio dei gioielli”, un confine tra un essenza di donna atemporale e quasi impersonale nella sua nudità e l’altra astrazione, sociale questa, dell’abito, simbolo di un ruolo altrettanto impersonale, come il drappeggio di una statua allegorica. L’ossessione di Antonino è crescente. Bice si ritroverà completamente nuda. È contento, dice a se stesso, e confessa di essersi innamorato. La sua teoria, con la mano freneticamente avvinghiata alla pompetta di un vecchio strumento fotografico, è che “la fotografia ha un solo senso se esaurisce tutte le immagini possibili… era una Bice invisibile che voleva possedere, una Bice assolutamente sola, una Bice la cui presenza supponesse l’assenza di lui e di tutti gli altri”. Ma Bice un giorno sparì, con conseguente crisi depressiva di Antonino. “Scattava foto in continuazione, compulsamente, con lo sguardi nel vuoto. Fotografava l’assenza della ragazza”.
Tentato di continuare fino alla fine dei suoi giorni. Un vivere maniacale. Finché si sorprese a invidiare la vita dei fotoreporter, “che si muove seguendo i moti delle folle, il sangue versato, le lacrime, le feste, il delitto, le convenzioni della moda, la falsità delle cerimonie ufficiali”. Antonino s’aggrappa così, sfuggendo alla follia, alla figura del fotoreporter “che documenta sugli estremi della società. Tutto ruota attorno a un pensiero: “Forse la fotografia totale è un mucchio di frammenti di immagini private, sullo sfondo sgualcito delle stragi e delle incoronazioni”. Capì che questa era la sua unica strada possibile da battere.