Visto alle Vie dei festival
Il potere di Brecht
Andrea Baracco continua il suo coraggioso lavoro sui classici rimettendo in scena Edaordo II di Marlowe riscritto da Brecht. Un bell'apologo sul potere, dove le nuove generazioni non vorrebbero patire le colpe dei padri
Ci vuole coraggio ad affrontare temi grandi in un tempo tanto piccolo. E coraggio ne ha da vendere, Andrea Baracco, che continua a inseguire i classici che trattano questioni alte: dopo Giulio Cesare e Amleto di Shakespeare ora è la volta di Edoardo II di Brecht/Marlowe, spettacolo imbastito negli scorsi anni e ora messo in scena nuovamente sia per il Franco Parenti di Milano sia per il Vascello di Roma dove ieri sera è andato in scena per la prestigiosa rassegna Le Vie dei Festival.
Nel 1924 Bertolt Brecht mise alla prova il suo (nascente) metodo drammaturgico con il grumo di passioni forti confezionato da Christopher Marlowe nel 1592, ennesimo apologo del teatro elisabettiano sulla caducità del potere e sulla forza rivoluzionaria delle nuove generazioni. Quanto Marlowe è magmatico e opaco, tanto Brecht è cristallino, ai limiti del didascalico, come in un primo esempio di teatro didattico. La vicenda è quella di re Edoardo II d’Inghilterra, vissuto nei primi anni del Trecento, il quale condusse una lunga e sanguinosa guerra civile (che Brecht sovrappone a quella di Troia) per via della contrarietà dei Pari d’Inghilterra alla sua relazione con il consigliere Gaveston. Ci vogliono tredici anni perché si spenga il conflitto intestino che porta alla morte di migliaia e migliaia di soldati e civili, tra i quali anche Gaveston, re Edoardo II e il suo più acceso oppositore, Mortimer. Solo alla fine il giovane Edoardo III, già coperto del sangue dei padri invoca Dio perché non infetti la sua generazione con le colpe assunte nel ventre della madre.
È ancora una volta qui, nella contrapposizione generazionale, il cuore dello spettacolo di Andrea Baracco che (molto brechtianamente) mostra una corte, ossia un nucleo di potere assoluto, nel quale colpe e responsabilità sono equamente ripartite tra le opposte fazioni. Solo chi ne è fuori, anche anagraficamente, può aspirare a disinfettare il mondo. Perché Edoardo e Mortimer, i quali pure si sfidano fino alla reciproca morte, sono due facce della stessa bramosia di potere dalla quale le nuove generazioni sperano di rimanere immuni. Non a caso nello spettacolo il giovane Edoardo, nell’uccidere Mortimer che gli ha ammazzato il discusso padre, è costretto a cospargersi di sangue: un gesto che per metà lo chiama in correità e per metà lo libera salvificamente. Baracco non sceglie tra queste due opzioni e in ciò, direi, sta la sua chiave di lettura politica del testo di Brecht, per altro già sommamente più politico di quello di Marlowe. D’altro canto, come sempre nel suo teatro, Baracco ha disseminato lo spettacolo di simboli che chiamano lo spettatore a un lavoro di decodifica complesso e affascinante allo stesso tempo: cosa che ne conferma lo status di regista particolarmente coraggioso. Per esempio, all’inizio del dramma i cortigiani girano protetti da un ombrello, quasi a presagire la tempesta che sta per abbattersi su di loro, come in prossimità della morte tutti i predestinati tingono il proprio corpo di nero, quasi sotto la loro pelle si intuisse già il loro scheletro. Senza parlare della terra che copre personaggi e palcoscenico in continuazione, come fosse contrapposta all’immaterialità delle illusioni perseguite dai personaggi.
Di Marlowe, Baracco sembra conservare ciò che Brecht meno amava: la vocazione all’ambiguità, quel flusso di passioni oscure e ingovernabili che affascinavano il grande autore elisabettiano e invece spaventavano il drammaturgo comunista. Ma è singolare – ed è forse questo il tratto migliore dello spettacolo – che Baracco recuperi Marlowe proprio mentre mette in scena pienamente il suo “antagonista” Brecht: segno di una maturità registica che forse meriterebbe più attenzione dalle istituzioni. Comunque sia, se dovessi dare un consiglio non richiesto, suggerirei a Baracco, al culmine di questo lavoro pluriennale, di affrontare Galileo Galilei, il meno brechtiano dei testi di Brecht. E in fin dei conti anche il più elisabettiano, perché è quello in cui la verità dell’autore è meno evidente.
Alla recita romana di Edoardo II il successo è stato a dir poco clamoroso, con il Teatro Vascello esaurito ad applaudire gli interpreti, Mauro Conte, Aurora Peres, Gabriele Portoghese, Nicola Russo, Francesco Sferrazza Papa e Marco Vergani, tutti da lodare per come hanno affrontato la sfida ardua di una drammaturgia assai impegnativa. Sì, proprio un atto di coraggio collettivo.