A Palazzo Reale di Milano
Ulisse e il Tuffatore
La ricchissima mostra milanese “Il Mito e la Natura” racconta il rapporto tra paesaggio e divinità nel mondo antico. Fin quasi alle origini dell'ambientalismo...
Ricordate Fantasia di Disney? La bucolica vendemmia ai piedi dell’Olimpo col sottofondo della Pastorale di Beethoven? Nella raffinata mostra Il Mito e la Natura (fino 10 gennaio 2016 a Palazzo Reale di Milano), troviamo la scena che ha ispirato quella sequenza cult. È racchiusa, in poco più di 30 centimetri, sulla superficie del Vaso blu, un vetro cammeo del I secolo dC, giunto intatto ai nostri giorni da Pompei L’ignoto artista ha raffigurato, tra pampini, grappoli e uccelli, un gruppo di amorini impegnati nell’attività agreste: uno è semidisteso su una kline, un altro suona la cetra al suo fianco, altri due sono intenti a vendemmiare mentre l’ultimo ha in mano un raspo e sul capo regge un canestro già colmo. L’opera ha viaggiato dall’Archeologico di Napoli per raccontare, insieme ad altri 180 capolavori custoditi nei più importanti musei del mondo (Paestum, Vaticano, Taranto, Santa Maria Capua Vetere Atene, il Kunsthistoriches di Vienna e il Louvre di Parigi), la rappresentazione della natura nel mondo classico, declinata in un excursus cronologico dalla Grecia, alla Magna Graecia e a Roma.
Il progetto, promosso da Comune di Milano, Università di Salerno e Milano, dal Museo Archeologico di Napoli e Soprintendenza Speciale per Pompei, Ercolano e Stabia in occasione di Expo 2015, è prodotto e organizzato da Palazzo Reale con la casa editrice Electa. Curatori Gemma Sena Chiesa e Angela Pontrandolfo, con l’apporto, per i testi in catalogo, di altri eminenti studiosi dell’antichità. L’allestimento è di Francesco Venezia che ha costruito un percorso emozionale con “quadri” dalla natura selvaggia a quella coltivata fino ai giardini delle delizie dell’otium di aristocratici e ricchi borghesi. Al centro dell’esposizione una struttura d’acciaio patinato a mo’ di roccia, nelle cavità i reperti, intorno una nicchia di colore verde oceano con le opere che sembrano fluttuare nelle acque. Un gigantesco carro con un trionfo di spighe ci introduce nella sezione dedicata all’agricoltura, alle pareti una selva bruciata che diventerà terreno fertile. Cambiano le atmosfere, eccoci nel Giardino incantato, evocato da una lunga vasca in travertino con rovine di un pergolato affioranti, la circondano frammenti di affreschi con verzure. La lettura affabulante dell’architetto ci accompagna attraverso i sei segmenti di questo kolossal della memoria che permette, per la prima volta, anche agli addetti ai lavori di abbracciare in un colpo d’occhio spettacolare opere che si conoscevano singolarmente – vasi, terrecotte votive, statue, pitture parietali, monili, monete dall’VIII secolo aC al II secolo dC – con l’effetto, voluto e ottenuto, di comprendere il significato della fitta presenza di elementi naturalistici nel repertorio figurativo greco-romano. E di riflettere, attraverso l’eredità dei nostri padri, sull’ambiente da salvaguardare come fonte di vita.
L’affascinante racconto parte dall’età arcaica, gli dei identificati con le forze della natura. Primo e secondo capitolo: «Lo spazio della natura e la natura come segno». Sui vasi geometrici e attici a figure nere è protagonista il mare, luogo di traffici, avventure, scoperte, partenze e ritorni, di sfide superate o concluse tragicamente. L’icona è uno dei pezzi più belli e antichi in vetrina, l’impressionante naufragio descritto 2700 anni fa dal pittore del cratere di Pithecusa: l’imbarcazione è capovolta, gli uomini dell’equipaggio nuotano nel vortice di pesci pronti a divorarli. Eppure la voglia di valicare gli orizzonti è grande come la sete di sapere. Il testimone è Ulisse, disposto ad affrontare pericoli pur di possedere il mistero di quel che c’è al di là dell’universo noto. Le sue avventure, mutuate da Omero, sono lo spunto per decori come quelli ricorrenti sugli aryballoi corinzi prodotti fino alla metà del VII secolo: l’eroe è legato all’albero della sua nave, guarda due sirene, testa di donna e corpo di uccello, la bocca aperta a simulare il canto, i compagni si affannano a remare per allontanarsi dall’isola su cui incombe un’imponente costruzione. La Pontrandolfo suggerisce che la struttura alluda alle porte dell’Ade e individua il parallelismo iconografico con la Tomba del Tuffatore di Paestum, tra i pochi documenti pittorici originali greci di V secolo a noi pervenuti. Le pylai compaiono anche qui a guardia di uno specchio d’acqua, un giovane nudo si tuffa nel vuoto, sembra quasi volare nell’estasi di immergersi nel mare della conoscenza interdetta ai vivi. Viaggiatori i popoli antichi, migranti desiderosi di attingere a culture altre, di mescolarsi, contaminarsi. Il manifesto di questo lifestyle, che dovrebbe esserci quanto mai d’esempio, è il bellissimo cratere pestano di Assteas (IV secolo a.C.).
Il ratto d’Europa è ricostruito in forma teatrale; nello spazio centrale la fanciulla fenicia è in groppa a un grande toro bianco che sorvola il mare (la traversata è menzionata anche nelle due hydriai ceretane di Villa Giulia e del Louvre), poi la rivediamo riccamente abbigliata accanto al rapitore Zeus, preceduta da Hermes che personifica Creta, il nuovo approdo, l’avamposto dell’Occidente che acquisendo linfa dall’Oriente assumerà il nome di Europa. Visioni oniriche e visioni iperrealistiche, la spiritualità cede il campo al quotidiano con la nutrita teoria dei piatti “da pesce” partoriti dalla maestria degli artigiani apuli. I “fondali” riguardano, però, anche il paesaggio terrestre animato, sui vasi a figure nere, da alberi stilizzati come quelli di VI secolo del pittore di Antimenes. Tra i tanti dedicati a Dioniso, commuove l’anfora del Pittore del Vaticano 350 con il compianto del guerriero morto che giace su un letto di rami fogliati, appoggiato a un tronco la panoplia e il mantello. Gli fa da specchio la cruenta battaglia dipinta a figure rosse di IV secolo, il cavaliere dall’armatura italiota intento ad uccidere il nemico.
Capitolo terzo: «La natura coltivata dono degli dei». Gli dei, benefici, interagiscono con la gente comune a cui impartisce le nozioni per procurarsi da vivere. Nei vasi attici a figure rosse di V e IV secolo a. C. ci sono Atena che sovrintende alla raccolta delle olive e alla vendita dell’olio, Dioniso, Semele e Arianna che governano la coltivazione della vite e la trasformazione in vino, Demetra, dea del grano e della fertilità che segna il passaggio delle stagioni, il misterioso Trittolemo che insegna all’uomo l’uso dell’aratro. Il suo volto regale lo ammiriamo nella pregevole scultura in marmo bianco di età imperiale, recentemente rinvenuta a Santa Maria Capua Vetere.
Capitolo quarto: «Il giardino incantato». Cambiano sensibilità e simboli nel periodo che traghetta all’ellenismo. Le composizioni diventano più sofisticate, prevale il gusto ornamentale dettato dalla corte macedone di Filippo II ed Alessandro – lo “copieranno” i romani per esaltare l’impero che fiorisce nella pace – le decorazioni, prevalentemente floreali, sono un misto tra realismo ed artificio, la pittura si affina con l’uso del chiaroscuro, le produzioni, elaboratissime, strizzano l’occhio al lusso. L’aldilà non è più tenebra ma, complice l’influenza delle dottrine pitagoriche, luogo di felicità ultraterrena, il fiabesco Giardino delle Esperidi – c’è una grandiosa parata in mostra di crateri e piatti cerimoniali – è descritto minuziosamente dai ceramografi magnogreci. Il repertorio di vasellame, argenteria, cristalli di rocca, rilievi marmorei seduce. Basti pensare al citato Vaso blu o al notissimo Rilievo Grimani, prestato da Vienna, la pecora con i suoi cuccioli scolpiti con naturalezza.
Quinto e sesto capitolo: «La scoperta del paesaggio. Il verde reale e il verde dipinto». Sena Chiesa porta l’attenzione sull’altra novità del periodo di transizione dal classicismo all’ellenismo, la creazione di ampie vedute, i “topia”. La seconda parte della mostra è una vera e propria pinacoteca costellata da affreschi con scorci paesaggistici che rivelano l’affinarsi della pittura con effetti coloristici e l’uso di prospettiva e luce come illusionismo spaziale. Sono paesaggi della mente, di maniera, quelli che fanno da sfondo a cacce principesche – vedi la lastra tombale di Paestum – o a scenografie idilliache con citazioni mitologiche, una fra tutte il Bacco alla pendici del Vesuvio della collezione Impresa Sampaolo. La maggior parte dei dipinti – foreste, grotte, cascatelle, prati punteggiati di fiori, tempietti, esotiche vedute nilotiche – sono di età romana (il “deposito” è Pompei), frammenti di sontuosi cicli parietali reiterati da bravi artigiani, buoni per tutte le tasche, sul modello di artisti celebri appannaggio esclusivo delle élite. Adornano le abitazioni cittadine e le ville marittime edificate lungo le coste laziali e campane, furoreggiano nelle grandiose dimore lacustri del nord Italia, il Mediterraneo ai piedi delle Alpi. Nasce la pittura dei giardini, il verde, esuberante, si dilata dall’esterno all’interno della domus. È ancora Pompei a farci da guida con i ben conservati affreschi della Casa del Bracciale d’oro. La manipolazione, l’invenzione iconografica dà vita anche a un altro genere pittorico, “xenia” dal dono di prodotti commestibili all’ospite , “nature morte” preferiamo definirle oggi. Tra tutte spicca il trittico, stupendo, proveniente dalla Casa dei Cervi di Ercolano.
Una sorpresa è la “settima stanza” che ospita tre quadri di Filippo De Pisis, la natura morta contemporanea ritrova profondità nel dialogo con l’antico. Siamo all’aperto. Prima di tornare ai ritmi della metropoli, l’ultima full immersion nel verde, questa volta reale, ce lo regala l’associazione botanica Orticola di Lombardia: un viridario, a cura degli architetti Marco Bay e Filippo Pizzoni, con piante di duemila anni fa.