Viaggio in un paese in guerra
Sul fronte di Baghdad
Dalla prima linea alla Capitale: in Iraq nessuno si fida di nessuno. Gli americani non fanno troppo affidamento sui militari locali; gli iracheni si sentono vittime del sistema corrotto con il quale vengono assegnati gli aiuti internazionali. E così l'Is continua a seminare terrore
L’Iraq è in bilico, Stato islamico si può battere, ma non è detto che ciò accada. L’attacco suicida di lunedì sera nell’area del mercato di Baquba, città a nord di Baghdad, è solo un segnale di una situazione fragile. Lo Stato iracheno non esiste, ormai è una lotta per bande, secondo i detrattori, con sciiti e sunniti che se ne contendono le spoglie. Ma potrebbe anche tornare a funzionare. Magari con confini diversi. Il primo ministro lo ha capito, forse un po’ tardi, lanciando una campagna contro la corruzione (punto chiave per sconfiggere l’Is non solo in Iraq) e tentando di rimettere in moto i servizi pubblici. Ricordiamo che dopo l’invasione del 2003 i soldi arrivavano in Iraq su pallet, e non venivano contati ma pesati. In totale una cascata di oltre 40 miliardi di dollari, 23 di fondi congelati al vecchio stato iracheno e 18 elargiti dal Congresso Usa. Spesso con un controllo contabile inesistente. Famoso un ministro della Difesa iracheno fuggito con un suo capo dipartimento e 1,3 miliardi di dollari. O il generale che percepiva ogni mese gli stipendi per pagare una divisione inesistente. Un mare di soldi facili che purtroppo hanno lasciato un’impronta sull’etica del “sistema” pubblico iracheno.
Arrivando a Baghdad, come ha fatto chi scrive nel giugno scorso, la prima cosa che noti è l’energia elettrica che va e viene durante tutto il giorno e la notte. La rete di telefonia fissa che non funziona. I gruppi elettrogeni che ormai sono entrati nel panorama consueto di ogni palazzo e abitazione privata, come i checkpoint blindati a difesa di ogni edificio pubblico, albergo, area di interesse o quartiere fuori dalla Green Zone. La Coalizione mette addestratori, soprattutto mezzi aerei, ma non gli uomini sul campo per sfruttare al meglio i raid dal cielo. Ora sono arrivati gli F-16 Falcon, in versione caccia-bombardieri, per l’aviazione irachena che si era ridotta ad avere 4 Cessna Caravan ad elica, ma senza i Forward air controller, coloro che indicano con precisione i bersagli a terra sarà difficile che possano ancora fare la “differenza”. Forse arriveranno anche loro, prima o poi.
Sono invece giunti a Baghdad gli italiani (una trentina) del Nono Reggimento Col Moschin, gli incursori paracadutisti della Folgore, per dare una mano alla riconquista di Fallujah e Ramadi. Ma il nostro Stato maggiore difesa è restio a far sapere cosa in effetti siano andati a fare i nostri uomini in Iraq, su richiesta diretta della Casa Bianca. E ha smentito la notizia della partenza delle nostre Forze speciali, lanciata a fine giugno sui media nazionali.
La situazione è questa, semplificando molto. Gli americani sono restii a mettere propri uomini sul campo, non si fidano delle unità sciite. Qualche generale Usa, con responsabilità ai tempi delle operazioni in Iraq, l’ha anche dichiarato pubblicamente. Alcune di queste, come kataib Hezbollah, tanto per fare un esempio, durante la rivolta di Moqtar al Sadr, sparavano contro i militari Usa. È dunque comprensibile una certa freddezza, ma è un errore. Perché?
L’Occidente non si fida più tanto degli iracheni, questi incominciano ad essere insofferenti anche nei confronti degli americani. Iran e Arabia Saudita giocano sporco e se ne fregano degli iracheni. Queste sono le prime impressioni a caldo dopo il mio arrivo in Iraq. Ma sono leggermente cambiate, almeno sulle prospettive future, dopo l’accordo Usa-Iran sul nucleare che non potrà non avere ricadute – si spera positive – anche sulla situazione irachena. E soprattutto dopo l’accordo Usa-Turchia sull’utilizzo della base aerea di Incirlik per la guerra contro l’Is. Le unità sciite sono le uniche ad avere coesione e “convinzione” per combattere i barbari di Islamic State. Ora sul fronte si trovano reparti delle Popular mobilization unit e della Iraqi federal police, con qualche rimasuglio dell’esercito che gestisce ancora delle unità corazzate con i carri Abrams M1A-1, come abbiamo potuto constatare direttamente. La guerra contro SI è di natura diversa rispetto ad un conflitto tradizionale, non ha bisogno di grandi schieramenti, ma serve un lavoro “politico” incisivo, costante e duraturo. E molta accuratezza nelle operazioni militari. Moneta non proprio corrente da quelle parti.
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Sto mangiando in piedi delle uova strapazzate nella lobby dell’hotel Baghdad quando arriva lo squillo di Wisam. Sono circa le sei e mezzo del mattino dell’11 giugno. Mollo tutto ed esco nel piazzale chiuso dell’albergo dove una “tecnica” della polizia federale e un gruppo di guardie private, una dozzina di uomini armati, sorvegliano l’ingresso di quello che è una specie di bunker sulla Sadoun street della capitale irachena. Vengo investito in pieno da un caldo torrido già a quell’ora del mattino. E salto al volo sull’auto che, passato l’ingresso, gira verso sud. Alla guida c’è Wisam, press officer delle formazioni militari Hashd al Shaabi o Popular mobilization unit (Pmu) secondo l’acronimo inglese. Shaabi vuol dire popolare con la stessa accezione che ha in italiano. Hashd ha diversi significati, ma in questo caso indica un gruppo, una formazione. Wasim spinge sull’acceleratore. Ma sono abituato alle “pazzie” dei taxi collettivi tunisini e il traffico di Baghdad non mi spaventa. Siamo diretti a una base delle Pmu nel quartiere di Karrada, più a Sud si vede l’ambasciata statunitense, trasformata in una cittadella sulle rive del Tigri. Organizzare questo viaggio ha richiesto qualche settimana ma ne è valsa la pena. Tutti sono interessati a conoscere il destino dell’Iraq. Specie dopo la caduta di Ramadi, le minacce di al Baghdadi «conquisteremo Baghad e Kerbala» e le ammissioni dell’ex capo della Cia generale David Petraeus («forse in Iraq stiamo perdendo la guerra contro lo Stato Islamico»). Ce la faranno le nuove formazioni sciite a contenere e sconfiggere l’Is? La Coalizione riuscirà a rendere efficace la propria presenza? Il governo iracheno e la comunità alleata si capiscono? Soprattutto Washington che ha deciso di fare? Quanto l’Occidente abbia voglia di vincerla in fretta questa guerra, perché l’Is è un nemico “perfetto”, come afferma un collega. In un periodo in cui si vuole creare un modello di democrazia “veloce” più adatta alla globalizzazione, necessariamente meno democratica, i “tartari” sono utili.
Dunque più domande che risposte da mettere sul piatto di una settimana di lavoro in Iraq.
Comunque istruttori o appartenenti alle forze speciali si notano in arrivo e in partenza dall’aeroporto della capitale. Somigliano tutti al modello Chris Kile, il protagonista reale di American Sniper il film diretto da Clint Eastwood. Barbe lunghe, palestrati, berrettino color sabbia, pantaloni kaki, zainetto tattico. Chiacchiero con uno di loro, esperienza in Afghanistan, conoscenze comuni: mi confessa che una settimana prima hanno mandato via dal corso per le forze speciali irachene una settantina di militari. Non sapevano neanche sparare.
Il viaggio embedded ha come destinazione finale la città di Baiji, circa duecento chilometri a nord di Baghdad, dove ancora si combatte contro i miliziani di Daesh. Appena due giorni prima la capitale era stata investita da una serie di attentati suicidi e attacchi concentrati nei quartieri occidentali. E, appena due giorni dopo la nostra visita, Baiji verrà colpita da un attacco suicida contro la raffineria, lasciando però la situazione sul campo invariata. Al contrario di Ramadi qui ci sono le formazioni sciite che tengono le posizioni. Il rischio attentati e azioni shuhud (kamikaze) è continuo. Questa una delle ragioni per cui ho saputo il programma di viaggio solo dopo essere arrivato nella sede delle Pmu. La tensione è alta anche se dissimulata dalla tendenza mediorientale a non prendere troppo sul serio ciò che ti accade intorno. «Faremo tappa a Samarra» (la città di al Baghdadi, il Califfo nero, ora liberata), mi dicono, dove c’è un’altra sede dei combat camera di queste formazioni volute da al Sistani, il capo religioso sciita iracheno, dopo il dissolvimento dell’esercito regolare la scorsa estate. “La vendetta di al Maliki” la chiamano gli iracheni. L’ex presidente della repubblica “cacciato” per la sua cattiva gestione della cosa pubblica, aveva voluto rendere al suo successore la vita impossibile. Le Forze armate, faticosamente ricostruite grazie ai soldi e agli sforzi di Washington si erano sciolte come neve al sole. Molti iracheni di differenti estrazioni sociali la pensano in questo modo «è opera di Nouri al Maliki, lo sanno tutti qui in Iraq» e sono convinti che in quel momento sia nata la disfatta che avrebbe poi portato alla caduta di Ramadi nella mani degli uomini del Califfo. Parliamo di una città circa 100 chilometri a ovest della capitale. La già difficile gestione militare del governatorato sarebbe diventata impossibile sull’onda del “tradimento” delle forze armate regolari e delle vendette degli uomini legati ad al Maliki. La cattiva amministrazione avrebbe incominciato a danneggiare seriamente gli affari a Ramadi, in verità basati molto sul contrabbando, così i capi tribù avrebbero stretto un accordo con L’Is. Daesh propone sempre un patto “fifty-fifty” sugli affari con le tribù locali, naturalmente dopo aver preparato il terreno con estrema violenza, colpendo con cura oppositori possibili o dichiarati. Di solito funziona. Può darsi che a Ramadi sia andata così.
Mentre la piccola colonna di Suv si muove veloce nel traffico di un tratto autostradale abbastanza moderno in mezzo a un caldo infernale, ma fortunatamente secco, penso a una delle tante questioni chiave della guerra a Islamic State: le missioni di attacco aria-terra. Ciò che i tecnici chiamano Close air support (Cas) operation. Negli ambienti urbani e lungo i fronti di guerra, dove le posizioni di amici e nemici sono ravvicinate e a volte si confondono, servono “acquisitori obiettivi”. La politica della Coalizione storcerebbe il naso – si fa per dire – se un errore dovesse causare vittime tra i civili. O ci fossero morti a causa di fuoco amico quello che in termini militari gli americani chiamano «blue on blue». La prima battaglia di Fallujah (2003) fu persa per questo motivo. I media iniziarono a martellare sulla strage di civili e si dovettero sospendere le operazioni. Errore evitato nella seconda battaglia del 2004. E proprio l’operazione Phantom Fury spiega l’importanza dei Forward air controller (Fac), guide al tiro avanzate per gli attacchi aerei, per sconfiggere un nemico che si annida ovunque. Presto scopriremo che sul fronte del Salahaldin non ci sono advisor di alcun tipo sul terreno.
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Intanto arriva la tappa di Samarra. Entriamo nel piccolo compound dove c’è un ospedale che opera grazie anche a medici volontari. Barelle di ogni foggia sono affastellate all’ingresso della struttura e proseguendo lungo un vialetto polveroso ci sono una dozzina di ambulanze. Entriamo negli uffici dei combat camera della Pmu di fronte al parcheggio. Mangio con loro all’araba, facendo attenzione a intingere il pane solo nel mio spicchio di piatto comune, seduto su di un tappeto. Lo stile è arabo ma i tempi sono quelli “militari”. Pochi minuti e si riparte. Uscendo incrociamo un reparto dalle divise scure (le Pmu non hanno delle uniformi particolari) si nota che rientrano dopo un contatto col nemico: sguardi determinati ma stanchi. C’è anche una donna, AK-47 a tracolla.
La città di Baiji è un importante hub per i rifornimenti di armi a Mosul, capitale dell’Is nel nord dell’Iraq e Ramadi a ovest di Baghdad. La presenza di una raffineria ne completa l’importanza. I miliziani del Califfo l’avevano parzialmente conquistata pochi mesi fa poi, dopo una battaglia cominciata lo scorso aprile, le forze governative, basate principalmente sulle formazioni Pmu, erano riuscite a liberarla portando il fronte a nord della città, anche se fonti d’intelligence occidentale danno presenti ancora delle sacche di resistenza. Gli attacchi suicidi del 13 giugno poi dimostrano come non si possa mai abbassare la guardia.
Ciò che rende difficile la riconquista di centri urbani tenuti dall’Is è la presenza di IED (Improvised explosive device – ordigni esplosivi improvvisati) in una quantità abnorme. Nella sola città di Tikrit serviranno mesi per la totale bonifica di migliaia di trappole esplosive. Anche i nostri spostamenti nelle zone liberate sono limitati a causa del rischio mine e Ied.
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Arriviamo finalmente ad Al Mazrua nella periferia sud di Baiji. Passato l’ennesimo checkpoint – ce ne sono infiniti lungo la Highway 1 da Baghdad – svoltiamo a sinistra su di una pista polverosa, sotto l’occhio attento di alcuni militari di Hezbollah a bordo di Humvee scure. Anche loro sono inquadrati nella formazione Pmu. Il comando di Hashd al Shaabi sono delle palazzine a due piani circondate da una landa desertica, qualche carcassa di blindato varia la linea retta dell’orizzonte. Siamo a meno di tre chilometri dal fronte, che dovrebbe correre poco a nord della città, mi spiega Wasim. L’artigliera governativa è vicina, ma non si vede. Si fa sentire.
E si fa sentire anche il generale dell’esercito (nuovo) Jumad Anad a capo del Salahaldin military operation command. E va dritto al punto che ci interessa: «Ho appena parlato col pilota di un aereo Usa in volo qua sopra, per dargli le coordinate di una posizione dell’Is da colpire. Niente da fare non ha sganciato». Molto probabilmente Anad aveva parlato con qualche intermediario del controllo aereo americano. Poi a una specifica domanda, tutto diventa chiaro. «Al momento qui non c’è alcun advisor Usa sul terreno».
Questi sono solo alcuni esempi che spiegano perché i piloti siano autorizzati a colpire solo bersagli “facili” tipo colonna militare in mezzo al deserto. E come ci si fidi poco delle indicazioni degli iracheni sul terreno.
Il problema era già emerso dopo la caduta di Ramadi, poi ancora durante la lunga parata di mezzi dell’Is sulle strade di Mosul. Il comando Usa e della Coalizione aveva assicurato di aver risolto il problema. A quanto pare così non era, ancora a giugno inoltrato. Almeno sul fronte di Baiji. «Qua le forze schierate sono a nostro favore. Abbiamo circa seimila uomini contro meno di duemila miliziani Daeesh» spiegava il militare governativo. Per le Pmu città e raffineria sarebbero sotto completo controllo, ma è probabile che ci siano sacche di resistenza e il fronte sia ancora troppo vicino e fluido per poter piazzare bandierine sulla mappa. Due giorni dopo la nostra visita ci sarebbe stato l’attacco suicida alla raffineria. Certo non paragonabile alle decine di shuhud di Ramadi con tonnellate di esplosivo, ma qui le unità sciite hanno tenuto le posizioni continuando a combattere. A protezione di Anad è arrivata una squadra SWAT della Polizia federale, con cui ci fermiamo a chiaccherare, avendo in mente le immagini di Ramadi: corpi speciali super-equipaggiati che si dileguano di fronte al nemico. Anche se in questo caso la storia sembra differente. Sono volontari delle formazioni sciite, alcuni molto giovani, con precedenti esperienze militari, l’impronta sciita c’è, ma meno marcata di quello che si potrebbe immaginare. Sono ragazzi molto simili ai nostri, stesse ambizioni e speranze. Lavoro, famiglia, una vita tranquilla senza troppi problemi. Per il momento, un miraggio in questo sfortunato paese. Si favoleggia molto sulle formazioni sciite, e non è sempre facile poter giudicare. Ma non dimentichiamo chi hanno di fronte. Difficile da queste parti girare con una copia della Convenzione di Ginevra in tasca. L’unica differenza, marcata, è il rapporto con la morte. Ma questo vale per tutti i musulmani. Non hanno paura di morire e il rapporto di amore con Dio è qualcosa che un occidentale non capirà mai.
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È giunta l’ora di ripartire verso Baghdad. Durante una sosta in una caserma delle Pmu, una cinquantina di chilometri più a sud, faccio in tempo a veder un combattente di Daesh appena catturato. Niente foto. Sono in auto e mi passa mezzo metro accanto, scortato da sei militari con uniformi scure. Pochi secondi e scompare dentro una palazzina bassa. Poi un’altra sosta nei pressi di Samarra. C’è un ristorante sulla strada dove fanno un pollo all’irachena che merita i venti minuti che gli dedichiamo. Sembra un pausa, un ritaglio di normalità in mezzo a una guerra. Ma poi noti solo divise intorno e sguardi attenti, appena compare una faccia nuova o straniera. Siamo in Iraq. E qua c’è una guerra che si può vincere, ma non è detto che ciò accadrà. Siamo alle porte di Baghdad non lontano da Taji, molti militari e muri di cemento. È un punto critico: l’Is è vicino. Il vento torrido sta calando e i colori del tardo pomeriggio trasformano tutto. A tratti la città sembra normale, bella negli scorci di verde e palme vicino al Tigri. Ricorda agli iracheni e ai viaggiatori occasionali, come il sottoscritto, come era e come dovrebbe tornare ad essere.
Il mestiere di giornalista da queste parti, in tutto il Medioriente, più in generale in tutte le aree di crisi, è diventato un lavoro difficile perché siamo convinti di essere protagonisti nel comunicare realtà difficili. Più spesso invece siamo solo prede del Grande gioco che già influenza le redazioni dei grandi media, oltretutto malate di pigrizia e sensazionalismo. Dove la verità diventa una componente, non sempre necessaria, per incrementare il “fatturato” e dove è quindi più facile che si concretizzino pericolose convergenze di interessi. A danno della verità, naturalmente, parlo di quella misera cosa che un essere umano è in grado di produrre. Chi si pone senza lenti sul campo a fatica percepisce frammenti di verità. Figuriamoci chi si preclude già in partenza una fetta di orizzonte con delle lenti “ideologiche”. Le guerre si vincono e si perdono con le armi, ma anche con i media. Resta comunque la volontà di essere onesti sempre, accurati quanto necessario e vivi il più a lungo possibile.
Le foto sono di Pierre Chiartano