Cartolina da Lisbona
L’infinito è Belém
A passeggio nel cuore della città, lungo un muraglione bianco dal quale ci aggrediscono i ricordi del Ricardo Reis di José Saramago, che sbarcò qui di ritorno dal Brasile
Facciamo finta di essere a febbraio. A Lisbona, in un bigio sabato pomeriggio (di febbraio, appunto) si può, per un improvviso surto di vitalità, lasciare la propria topaia di attempato studente ed incamminarsi vero Belém e verso o Mosteiro dos Jerónimos. Luogo assolutamente fatale. Era la porta di Lisbona sul mondo, dove nella bianca Torre, ben munita di cannoni, venivano sontuosamente ospitati gli ambasciatori stranieri in arrivo. Era ed è uno dei luoghi della più fervida spiritualità neo-gotica manuelina e gerolomina. Fu anche il luogo in cui il molto poco divino Marques de Pombal, grande plebeo, fece per vendetta giustiziare e squartare gli esponenti del fior fiore della nobiltà lusa di sangue goto (tra cui il potentissimo Principe di Távora). Uno sterminio pari a quello della partenopea contro-rivoluzione del ’99.
Ecco le strade semivuote del sabato pomeriggio ed i soliti sbandati, alcuni ubriachi, in cammino per gli spogli passaggi del Metro. Subito la voglia di tornare indietro a rintanarsi in topaia. Ma in qualche modo si giunge alla vasta piazza sotterranea a multi-livelli di Baixa-Chiado, tutta piastrellata color crema, e di lui subito alla sotto-stazione in direzione Cais do Sodrè. Altro luogo fatale, come si è già detto in altri reportages. Poi ecco Cais do Sodrè in carne ed ossa. E qui ci aggrediscono i ricordi del Ricardo Reis di Saramago che vi sbarca di ritorno dal Brasile. Poi la mano bianca di un muraglione semicircolare ci raccoglie dalla folla e ci espelle in superficie.
Ecco la vasta Avenida 24 de Julho ed le linee perdentesi all’infinito dei binari dell’elètrico 15 (gremito di turisti). L’infinito è Belém.
Di nuovo sfuggenti e cupe presenze alcooliche sguscianti tra la folla. È sabato. L’Avenida procede ordinata verso ovest, fiancheggiata da un lato dalle sponde e dai moli e dall’altro lato da antichi empori dalle austere facciate. Alcune di esse maestose ed eleganti. Una sormontato da tanto di cupola con uno squisito grande orologio. Sopra la cupola un pensoso sbuffo di nuvole cariche di umidità. Poi la foce di Rua das Janelas Verdes. Nome di per sé carico di un fascino pieno di assonanze spagnolesche. A sinistra svettano le gru dei moli. Facciate rosa e celesti corrono sullo sfondo dello sguardo.
La lunga prospettiva fa sì che mi colga di sorpresa il ricordo di una vecchia spiaggia semi-solitaria perduta in un tempo svanito. E la sabbiosa atmosfera di luoghi balneari ancora sospesi tra il selvaggio e il paesano. Anch’essi esposti, come qui, da ogni lato all’infinito. Procedenti di qua e di là verso un vuoto colmo di quieto oblio. Poi il Ponte e il Cristo. Ogni porta e finestra è delicatamente incorniciata di pietra. E muri scrostati di ogni colore: verde-naspro, giallo ocra, rosa, celeste. Familiarità del decadente. La città trapassa qui nella periferia portuale e meccanica. Bui cortili sotto capannoni di ferro. La stazione dei tram-trenini. Viali di alberelli, e sole a secchiate sui rosa Baires. Severi sembianti di silos. Vicoletti inerpicantisi tra giardini. E muri e muriccioli dovunque. Di colpo un maculato azzurrino di azulejos rispecchia il sole abbagliando.
Promessa, ma di cosa? Familiarità, ma perché? Forse perché tutto sembra così mediterraneo.
Ma la vera promessa è Belém. Eccola. Si ergono da un lato e dall’altro la lunghissima facciata a perdita d’occhio del Mosteiro (Ahi, il vecchio sogno di una chiesa come questa!) e la mole del monumento ai Descobrimentos, con in testa Vasco da Gama. Amplissimi marciapiedi, file interminabili di lecci. Deliziosi giardinetti inframmezzati di olivi e cipressi. Ed in mezzo una grande fontana ansimante, tra soffi sibili e getti, torri crescenti e decrescenti d’acqua.
Sì l’acqua. Bisogna cercare l’acqua. Quando la ho ai miei piedi vedo incedere maestosi i velieri e vedo l’agile arco rosso carminio del ponte scavalcare il fiume. Mentre il cielo, indeciso sul da farsi, si produce in cangianti sprazzi grigio-perlacei (non privi di venature d’azzurro) sull’acqua sotto il suo ventre. Dall’altro lato del fiume le rotonde colline indecise tra il verde ed il tabacco.
Il Monumento è ora qui davanti a me. Torreggiante. Orgogliosamente circondato di sfere armillari e costellato di Quinas. Affollatissima l’ascesa degli eroi. Una colonna traiana! Ora se ne vede anche la vasta ed alta Croce che gli fa da imbrunita nervatura e pilone.
Bianco il Monumento come tutto a Lisbona, ma più da vicino un coacervo di grigio-fumi dilavanti. Spezza in due il sole che lo ricambia cospargendolo da un lato di una placida e spenta ombra. Uggiosa come il resto del pomeriggio. Sarà proprio questo il mistero della Croce che esso conserva?
Sulla lunga facciata di fronte si lasciano cogliere lontanissime, nel rosa che avanza, sequenze di tornite torrette moresche. E due grandi torri gugliate. Su tutto il passare gridante dei gabbiani.
Al Centro Cultural Belém daranno «As Cavalhas do Vento». Mostre : ‒ «Meio corpo», «O Tempo resgatado ao Mar ». Vi entro inoltrandomi per i suoi passaggi decorati a larghi piastroni perlacei dalle chiazze bianco-sporco incrostate di ori e rossi ferrosi. Emergo nell’alta piazza in cui la vista è sbarrata da ogni lato da muraglioni ed amplissime campate. Ovunque condore cosparso di rosa. Raggiungo il Caffè e mi affaccio sulle desolate e grigie linee dei rossi comboios verso Cascáis e Sintra.
Poi mi siedo. Il cielo ad occidente è ovattato. Le nuvole nell’aurearsi di sole al tramonto si smaterializzano. Intensissimo il cinguettio dei passeri. Dilagante il basculare dei riflessi negli stagni del giardino. Ricordano i lavacri lustrali di un tempio pagano. Ma non sarà l’effetto del Mosteiro e della Croce? Le acque del fiume, ora immobili, sono divenute color giada. Vasco cerca di guardare oltre la collina dirimpetto. È proprio in lui che inizia l’interrogativa attesa dell’intera città e dell’intero paese. Posare lo sguardo su cosa? Andiamo e vedremo!
Poi il rosa, finora appena accennato in riflessi senza origine, inizia a prendere il sopravvento sulle nuvole finora sfolgoranti di oro. Ed il cielo diviene di un celeste pallido assolutamente improbabile. Trasmutazioni alchemiche di ogni tramonto.
È l’imbrunire, e finalmente entro nel Mosteiro, la mia vera meta. In un fantasmagorico alternarsi labirintico di luci di ogni tonalità e sfumatura, l’ombra aggetta dalle mura su di noi. In essa si intersecano nervose le venature intrecciate dei costoloni gotici e dei convoluti intarsi manuelini.
Sull’altare piove intanto una dolce luce dorata. Ed il prete, un simpatico, tenerissimo ed un po’ maldestro careca, ha proprio la postura, i modi e la voce chioccia ma carezzevole di un Sant’Alfonso de Liguori. La sua statua se ne sta offesa in un angolino nascosto di una stradaccia del quartiere di Napoli dal nome Chiaiano. Verso il vallone di San Rocco.
Là Napoli sembra proprio la Baires periferica di Borges. Lisbona un po’ meno.