A proposito di ”Fino a Salgareda“
La città di Parise
Torna in libreria il prezioso saggio di Silvio Perrella dedicato a Goffredo Parise. Uno scrittore apparentemente senza radici, che ha raccontato dall'interno tutti i luoghi dove ha vissuto
Ho sentito alla radio, a proposito di Emilio Salgari, una frase significativa: «Oggi non si ricorda più niente». È un dato di fatto che degli scrittori della seconda metà del 1900 pochi, anche coloro che sono moderatamente colti, potrebbero citare, con cognizione di causa (ovvero di contenuto), all’incirca cinque-dieci narratori. Per certi versi si è rimasti, se va bene, a Leonardo Sciascia e a Pier Paolo Pasolini (noto più per il cinema che non per la prosa e la poesia; e ciò vale forse anche per il maestro di Regalpetra). E gli altri? Sono tutti destinati al macero o quasi? Ma scherziamo! Parte di colpa va attribuita agli insegnanti, che da decenni danno da leggere per l’estate il solito Italo Calvino. Mi chiedo: entrano mai in una libreria? E poi una certa editoria ha il difetto di non riproporre.
Sempre alla radio ho sentito lamentele per il fatto che risultano “introvabili” testi pubblicati a fine anni Novanta. Per questi e altri motivi trovo apprezzabile che la Neri Pozza abbia ripubblicato un saggio su Goffredo Parise (1928-1986). S’intitola Fino a Salgareda (202 pagine, 14 euro). L’autore è Silvio Perrella, il critico palermitano trapiantato a Napoli che i lettori di Succedeoggi conoscono bene. Saggista brillante e documentatissimo. Chissà perché l’editore non si è premurato di citare, in un sottotitolo, il nome del narratore oggetto di studio. Bisogna andare alla quarta di copertina per capire che Fino a Salgareda non è un romanzo (anche se si fa leggere come un buon romanzo).
Parise lo definirei scrittore di quattro città. E forse di molte altre visto che ha viaggiato molto e ha scritto reportage sull’America, la Cina, il Giappone. Parise è nato a Vicenza nel 1928. Notizia geograficamente esatta. Ma non tale se si considera che questo «nomade della letteratura» si è trasferito presto a Venezia, dove ha scritto Il ragazzo morto e le comete (edito da Neri Pozza, riedito dalla Mondadori). A Milano lavora senza incarichi precisi alla Garzanti. L’editore manda in libreria Il prete bello (straordinario successo di vendite e di critica: ne è stato tratto anche un film). Livio Garzanti era uomo umorale e rumorosamente sbadigliante, che dava continui segnali di noia, vera o affettata, e amava mettere zizzania tra i suoi collaboratori. Parise abitava a Porta Genova e ogni mattina in bus percorreva la via dei Navigli, percorso stendhaliano, ora purtroppo sepolti da un’orribile colata di cemento.
Dopo lo spaesamento meneghino, Parise si trasferisce a Roma, città che considera magnifica e accogliente e occasione di incontri importanti (Gadda, Moravia, Pasolini e vari altri artisti), ma che alla fine gli darà fastidio in quanto «sempre di più arabizzata». La sua città di origine è come relegata in un angolo della sua cantina mnemonica. Parla spesso col concittadino Guido Piovene della “vicentinità”, e la rifiuta (forse è troppo legata allo stato di figlio di padre ignoto: fu successivamente adottato dal marito della madre) e altre città dove ha vissuto rappresentano fonte di rinascita umano-letteraria. Da esse ne viene plasmato: il tono stilistico delle sue pagine lo testimoniano. Goffredo va a Venezia nel ’50: confesserà che la città lagunare è il luogo della sua prima trasformazione, al punto tale che «se esiste una mia radice ideale, non pratica, è l’attaccamento che nutro, profondissimo, per Venezia. Non sono nato a Vicenza, ma a Venezia. Perché la vera nascita non è quella biologica, bensì quella culturale».
Dopo l’aspro e amabile odore dei canali c’è la frenetica Milano. Qui, nelle pause di lavoro, si appoggia a una parete di un edificio dopo aver chiesto a un mendicante di svegliarlo dopo mezz’ora. Nel centro lombardo ci è arrivato con un lungo cappotto nero e cappello scuro e floscio, in segreto omaggio a Dostoevskij. S’accorge, ma non subito, subito che Milano è, per così dire, perentoria: impone di «trasformarsi in uomini adulti». All’inizio, in una lettera a Comisso, scrive: «Qui sento un effetto». In otto anni di permanenza non riesce ad avere una casa propria e vive in alberghi e pensioni. Non a caso la città viene subito considerata “di passaggio”, «esistenziale, geografico, espressivo» come annota Perrella. Conosce Leo Longanesi, che lo incoraggia a scrivere, ed Eugenio Montale, uno dei pochissimi recensori dei suoi scritti. L’amicizia durerà fino alla morte del poeta, del quale Parise trascrive un curioso estratto di conversazione. Eugenio: «Ma tu credi proprio che io sia un poeta?». Goffredo, con molto imbarazzo: «Che tu sia o no un poeta non posso dire; posso però affermare con certezza che sei un artista». E l’altro borbotta: «Mah, non lo so…». Sposa (con Giovanni Comisso come testimone) Mariolina Sperotti detta Mariola. Unione sin dall’inizio sfilacciata e scialba. La sua vera compagna di vita è la pittrice Giosetta Fioroni, conosciuta a Roma: sarà a lei che detterà (ormai impossibilitato a scrivere dopo l’ infarto che gli procura un’arteriopatia diffusa) trenta criptiche e non certo memorabili poesie.
A Roma, dove ha occasione di affondare il bisturi conoscitivo negli strati più profondi e antichi dell’Italia. All’inizio, in una lettera a Comisso, scrive: «Qui sento un effetto benefico e liberatorio». In altre epistole smorza il suo entusiasmo, facendo emergere ancora una volta la sua endemica irrequietezza geografica: «Da Roma, emotivamente, ho ricevuto ben poco». La capitale però è avvertita come proprio habitat. E humus per la sua fantasia, «così soffocata a Milano». Va ad abitare alla Camilluccia, vicino a Gadda, che Parise fa scorrazzare a bordo di una spider: immaginate il divertente imbarazzo del “gran lombardo”, capace di problematizzare, con invenzioni lessicali impareggiabili, anche l’attraversamento di una strada? Intanto, dal 1979 e il 1997, scrive i Sillabari (editi dalla Mondadori). Ci mette dentro se stesso, lui così refrattario all’autobiografismo. Dopo l’uscita de L’odore del sangue confessa in una lettera ad Alcide Paolini: «Non sto bene: un alter ego atroce, beffardo, crudele, disumano e nazista mi perseguita…». Accenna alla “colpa”. «Colpa sanguinolenta dell’origine» annota Silvio Perrella «di cui sa di potersi liberare solo con la morte, in un Veneto barbaro di muschi e nebbie».
Ma Salgareda, borgo trevigiano conosciuto per caso durante una passeggiata a cavallo, diventa “patria” per uno scrittore che ha viaggiato molto: a New York («città di matti, dà nausea come si fosse ubriachi») riflette sull’«uomo artificiale». Cui contrappone la quintessenza di ciò che fu naturale negli esseri umani. La sua, scrive Perrella, «è una rivolta contro l’anestesia dei sentimenti umani e nazionali». Degli Stati Uniti, che hanno una «vitalità barbarica» (questo aggettivo pare gli piaccia molto), apprezza la cosiddetta nuova cultura, la cultura degli oggetti. Cosa che lo affascina e insieme lo terrorizza. Dopo un incontro con un generale, col quale discute della guerra in Vietnam, Parise alla fine pensa: questi qui prenderanno una gran batosta.
Del Giappone ammira soprattutto l’eleganza. In Cina dove avverte immediatamente uno spaventoso fanatismo. Sono una sorta di «libertinaggio lessicale» i suoi reportage che lo faranno meditare sul futuro del romanzo. Curioso di tutto, anche delle donne. Pur da loro molto attratto, con moltissime si annoia: «Mi rubano tempo». Eppure le descrive in tutta la loro intensa sensualità, indulgendo con raffinata precisione sulla seduzione olfattiva. Parise viene sepolto a Treviso. Non a Vicenza, guardacaso.