Lorena Piras
Nell’ambito del festival “Time in jazz”

Il corpo del poeta

Nel cuore della Sardegna, a Berchidda, grazie alle celebri immagini di Dino Pedriali una mostra ricostruisce il tormentato rapporto tra creazione e corpo in Pier Paolo Pasolini

Andare a Berchidda, nel nord della Sardegna, significa percorrere strade che conducono oltre il confortante percorso tracciato dalle cartoline, quelle che rappresentano l’isola del mare e delle spiagge. Significa entrare nella regione del Monteacuto e arrivare sino alle pendici del monte Limbara in un alternarsi di alture e zone pianeggianti, rocce e macchia, boschi di querce dal tronco rosso ruggine, segno dell’ultima raccolta di sughero. Andare a Berchidda per una mostra su Pier Paolo Pasolini (PPP, sulle ali della poesia, organizzata nell’ambito del festival Time in jazz e visitabile al centro Laber sino al 31 agosto su prenotazione allo 079 704931) significa addentrarsi nel complesso e sfaccettato mondo dello scrittore friulano.

Un’anticamera, uno schermo. E con la vespa di Moretti e il Köln Concert di Keith Jarrett si arriva sino all’idroscalo di Ostia, diverso da quello di oggi e ancora di più da quel pezzo di terra e buche di quarant’anni fa, quello che scorre nelle immagini alle spalle di Marco Raviart che al Tg1, con voce monocorde e parole asettiche, annuncia la morte «dello scrittore Pier Paolo Pasolini», il ritrovamento del suo corpo massacrato proprio dove ora sorge un parco. Il verde, dove prima c’erano baracche, fango e sangue. Un monumento, a ricordare, come nelle parole di Moravia, che «poeti ne nascono due o tre ogni secolo…che non si uccidono i poeti».

Ed è il corpo del poeta il protagonista della prima sezione espositiva, nei settantasette scatti con cui un giovane Dino Pedriali ha cristallizzato la figura di Pasolini. È l’ottobre del 1975, Pasolini è impegnato nella stesura di Vas, poi diventato Petrolio, sono del suo ultimo lavoro i fogli che vediamo nelle foto che di Petrolio avrebbero dovuto far parte. Pasolini concentrato, stretto, costretto, in primissimi piani. Di spalle, davanti alla sua Olivetti lettera 22. Con una biro senza tappo appoggiata sul tavolo, per le correzioni. Due sessioni di posa, una a Sabaudia, la Sabaudia fascista nell’architettura ma che non si è lasciata corrompere nello spirito, e un’altra a Chia, nella torre-rifugio scoperta dieci anni prima durante i sopralluoghi per Il Vangelo secondo Matteo e che impiegò cinque anni per riuscire ad acquistare. Il luogo dove il poeta avrebbe voluto ritirarsi, tra «querce indorate dal sole, con gli Appennini che sanno di sabbia calda», in un paesaggio«che avrebbe fatto impazzire di gioia l’Ariosto», dedicandosi nuovamente alla pittura: lo vediamo infatti in una sequenza a terra mentre dipinge a carboncino il profilo del suo Maestro Roberto Longhi, conosciuto sul finire degli anni ’30 a Bologna, quando studente di lettere e filosofia ne seguì le lezioni di storia dell’arte definendole poi «una folgorazione nel grigiore del primo inverno di guerra».

Diverse ambientazioni, ma solo Pasolini, Pasolini solo. Lo sguardo e l’obiettivo di Pedriali ne restituiscono l’essere, l’essenza, tutta quella forza necessaria per affrontare la solitudine, sua ombra per tutta la vita, scalpello che gli scavò il volto: Sabaudia, sul ponte Pedriali gli chiede un’ultima foto, gli dà del lei, Signor Pasolini, lo chiama, poi lo scatto, il poeta osserva l’orizzonte e dice «non c’è più posto nel mondo per me, neanche al Terzo mondo».

E ancora Pasolini a nudo, oltre le vetrate della sua casa, oltre la notte. Esposizione, provocazione, esibizione del corpo, del proprio corpo, come già nella Trilogia della vita, come nell’ultimo Salò. Il bene e il male, il dentro e il fuori, è tutto dualità, dualismo, sdoppiamento: il buio nasconde il fotografo, la luce rivela il poeta. Tutto entra in contatto con tutto: fotografia, scrittura, disegno, vita, morte. Quella che non permetterà la stesura di Petrolio e l’utilizzo di queste foto che continuano a difendere e custodire intatto, asciutto fascio di nervi e muscoli, il corpo di Pasolini.

Dino Pedriali Pasolini1Ma la mostra non finisce con questo: di Pasolini ci sono anche gli scritti, le foto di scena, i film. Un’intera sala è dedicata alle locandine, dal Don Juan nel Requiescant di Lizzani, al partigiano monco de Il gobbo, anche di Lizzani. E poi Mamma Roma, la censura che copre i nudi di Salò, Totò e Davoli in Uccellacci e uccellini, Enrique Irazoqui che presta il volto all’indimenticabile Cristo del Vangelo secondo Matteo. E fa strano pensare che ogni locandina, ogni pellicola, a partire da quella con il Franco Citti di Accattone, rappresenta un processo, un tribunale, un attacco all’uomo attraverso la sua opera: trentatré procedimenti penali,  altrettante assoluzioni.

Altre sale: si passa da Orson Welles che risponde «solo a quattro domande» ne La ricotta, a Totò-Jago che spiega a Davoli-Otello «che cosa sono le nuvole», e poi la voce, la voce sottile di Pasolini, quella che lui stesso definiva «puerile», nelle sue interviste. La sua voce calma e ferma, quella dell’ultima intervista a Stoccolma, quella del documentario girato in India, quella in cui parla della lingua italiana.

E un altro video si intitola Pasolini e la forma della città. È del febbraio ’74, Pasolini cammina per le dune di Sabaudia, guarda in camera, il volto teso, aggiusta più volte i capelli sferzati dal vento, come il mare. Denuncia l’imbarbarimento culturale, l’appiattimento e la devastazione verso la quale ci stavamo incamminando. Poi si ferma, smette di parlare, ha già detto tutto. Gira le spalle, le mani in tasca, il cappotto aperto gonfio di corrente, si incammina con passo deciso verso l’urlo del mare, tra le dune. In dissolvenza.

Un’altra sala, l’ultima. Un anno e mezzo dopo quell’intervista, un altro mare, un altro lido, un’altra uscita di scena. Alle pareti cinque, sei schermi: interviste ad avvocati, testimonianze e uno speciale del Tg3 in cui si vede una scatola con una sigla, 32-57-C. Una scatola che da quarant’anni contiene ciò che rimane di una notte all’idroscalo.

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