Viaggio in Italia/2
I pomodori di Venosa
Da Ferrandina a Venosa, passando per Craco e (naturalmente) Melfi: un piccolo catalogo di segreti che forse dovremmo tutti conoscere meglio. Per riscoprire la nostra identità
Dopo Matera, il percorso lungo e faticoso tra Ferrandina, Craco, Stigliano e Aliano mi ha portato nel cuore dei Calanchi, una zona centrale e sostanzialmente arida del territorio lucano, dove la temperatura ha sfiorato i 40 gradi per quasi tutta la giornata e il vento che entrava dai finestrini dell’auto mi faceva l’effetto di un phon sparato in faccia.
A Ferrandina, di fondazione aragonese e attorniata da uliveti, producono dal 1700 le squisite olive infornate e finalmente hanno San Rocco come santo patrono (Rocco è ancora tra i nomi più diffusi in Basilicata). Anche qui, come in altre località, al bar centrale trovo –oltre ai ritratti degli antenati- una foto d’epoca del paese, che insieme alle notizie fornite da una signora, mi chiarisce la struttura urbanistica della città, con le case disposte su più file, come se fossero costruite su piani diversi. Hanno un sindaco molto anziano, mi raccontano, che avendo guidato a fasi alterne la città per ben 26 anni dal 1980 ad oggi, è diventato un’istituzione, un sovrano, un esempio di politico attaccato alla poltrona.
Per strade sempre più strette e sinuose, solcate da rocce inclinate come denti storti verso il cielo, proseguo per il borgo fantasma di Craco, una città costruita su un pizzo di montagna e abbandonata più di 50 anni fa per una frana terribile. Non vi si accede, se non con una guida autorizzata, e tutto il perimetro del borgo è transennato. C’è davvero un’atmosfera irreale, e pochissimi turisti che trovano ristoro a uno di quei camioncini attrezzati a bar. Mi faccio l’idea che questa zona, a parte il paese ricostruito anonimo più a valle, si animi solo quando viene scelta come location cinematografica: lo hanno fatto Rosi, Mel Gibson e più recentemente Rocco Papaleo, che con il suo “Basilicata coast to coast” è in parte responsabile del mio piccolo tour.
La strada che da Craco mi porta ad Aliano, salendo fin quasi ai 1000 metri di Stigliano, a guardarla sulla cartina è un groviglio d’intestini. A percorrerla si capisce cosa intendono le guide quando scrivono di paesaggi lunari, di deserto di roccia, di scenario fantastico. A parte i falchi che si fanno trasportare dalle correnti d’aria, a parte il frinire delle cicale quando la vegetazione boschiva torna ad ammantare il territorio, qui non c’è anima viva. Però non fa paura.
Ad Aliano c’è un busto scuro di Carlo Levi, in un giardinetto che guarda sullo strapiombo, e frasi del suo “Cristo si è fermato ad Eboli” attaccate ai muri del paese, dove si può visitare la casa che lo accolse negli otto mesi di confino, tra il ‘35 e il ‘36. Ci sono pochi uomini a ripararsi dal sole ai tavolini dell’unico bar aperto e all’improvviso un folto gruppo di ragazzi con l’accento del nord, che irrompono nel locale per comprare gelati e bibite, ravvivando il silenzio della controra. Da una parte e dall’altra del corso principale ci sono i calanchi, queste rocce erose, aspre, chiare, naturale baluardo della “immobile civiltà”, che davvero fanno sentire di essere “confinati” quando se ne è attorniati.
Un’altra strada bella e scorrevole è la Statale 598, che segue il fiume Agri e costeggia nella sua lunghezza il lago artificiale di Pietra del Pertusillo, la cui diga, costruita ai tempi e con i fondi della Cassa del Mezzogiorno, risulta la più grande d’Europa. È un paesaggio magnifico, ricoperto di castagni e faggi, che scendono fin quasi in acqua, e finalmente c’è un’aria meno calda.
L’ultima zona che visito è quella del Vulture Melfese, a nord di Potenza, una propaggine di territorio lucano incastrato tra la Campania e la Puglia. Di stanza a Rapolla, in un albergo delle locali terme che ha conosciuto in passato altri splendori, scelgo come prima tappa i Laghi di Monticchio, due crateri di origine vulcanica legati da un istmo che nelle foto aeree rivelano la loro forma a 8. Qui è tutto un fiorire di aree picnic, di ristoranti e bar, di noleggio di pedalò e risciò, però non c’è nessuno, solo i gestori che aprono, puliscono, allestiscono le loro aree. Faccio un giro sul percorso pedonale del lago piccolo, da dove si vede incastonata nel verde la Badia di San Michele. La vegetazione è bella e rigogliosa ma deturpata da cestini non svuotati di carte e rifiuti, da avanzi di cibo lasciati deliberatamente a terra dagli scemi di turno. Manca il senso civico, è vero, ma anche il controllo, che peccato.
Dai Laghi si arriva a Rionero in Vulture, che ha dato i natali al brigante Carmine Crocco e allo studioso Giustino Fortunato, due personaggi che, ciascuno a modo suo, si sono occupati della questione meridionale. Ma Rionero oggi è soprattutto un centro abbastanza grande, vivace di attività e commercio, patria del vino Aglianico, che qui si vende nelle cantine, sfuso e imbottigliato.
Da Rionero, la salita al Monte Vulture è una strada stretta e pendente che in pochi chilometri porta a un’altezza di oltre 1200 metri, in mezzo a una vegetazione di alberi alti, frondosi, verdissimi. Da qui partono vari sentieri, che portano ad altri punti panoramici dai quali si vedono gli abitati di Melfi e Venosa, la valle punteggiata di pale eoliche, le strisce di diverso colore che indicano la varietà delle coltivazioni. Dicono che nelle giornate senza foschia la vista arrivi fino al Gargano, così come a Stigliano mi avevano detto che da lì in certi casi si poteva vedere Taranto. Ma il caldo è afoso, e la visibilità ridotta, mi accontento di continuare a guardare la terra lucana, stupendomi di trovarla così poco antropizzata.
La penultima tappa del viaggio è un pomeriggio a Melfi, dominata anche nelle descrizioni dalla mole imponente del suo castello, posto perifericamente e in alto rispetto al centro abitato. Qui, dove si fecero concili e sinodi, ci visse, tra gli altri, Federico II, che amava queste terre dove scrisse, andò a caccia, procreò. Ma è Melfi che mi colpisce di più, con la sua storia antica di insediamenti, traffici e commerci, la piazza rettangolare e bellissima davanti alla Cattedrale, gli scorci di palazzi e vicoli, portali e cortili che rivelano la sua età e la sua passata importanza. Casualmente capito nella giornata del Premio Bramea, una sorta di notte bianca con le piazze allestite con i gonfiabili per i bambini, la musica disco per i ragazzi, la braciata e l’anguria per tutti gli altri. E scopro che la Bramea europea è una rarissima farfalla notturna che vive in questa zona, una sorta di fossile vivente, un vanto e una peculiarità di queste terre.
Saluto la Basilicata visitando Venosa, la città di Orazio. Qui è davvero imponente la vasta area archeologica, che ingloba i resti romani delle terme, l’anfiteatro e ben due chiese, una delle quali incompiuta nel suo mastodontico progetto. Dall’altro lato della città il Castello, che guarda su una piazza lunga e ornata di bei porticati che ospitano bar accoglienti, oggi –per la prima volta- ospita un matrimonio. L’ampio cortile interno è tutto in fase di allestimento, con il futuro sposo infaticabile che dirige il lavoro di almeno 20 persone che sudano sotto il sole implacabile della controra perché tutto sia perfetto quando alle 20 – orario di termine visita – arriveranno i 300 invitati.
Resto colpita da questa possibilità di “usare” il patrimonio architettonico: ho sempre pensato – per quello che vale la mia opinione – che i monumenti, con regole e controlli, potessero accogliere le cerimonie, le feste, gli incontri della gente comune. Bravi questi Venosini, che hanno pure affisso le più famose frasi di Orazio agli angoli delle strade, per rammentarsi di vivere il presente e d’esser grati al destino quando è benevolo.
Da parte mia, prendo e porto a casa: i pomodori regalati dalla salumiera dove ho comprato pane e prosciutto, tutte le cose belle che incontrato in terra lucana, lo stimolo a rimanere curiosa come quando viaggio, gli insegnamenti di Orazio: “Stendi grata la mano verso quell’ora fortunata che un dio ti ha concesso, e non rimandare di anno in anno le gioie che puoi oggi assaporare. Così, ovunque tu sia stato, potrai dire d’esser vissuto contento”.
Un bel viatico per tornare alla vita di tutti i giorni.
2. Fine